“Filiera Sporca”, così vengono sfruttati gli invisibili dell’agricoltura

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#FilieraSporca è il rapporto che fa luce sulle condizioni di sfruttamento dei braccianti nelle campagne di Sicilia e Calabria. Attraverso interviste sul campo, dati e confronto con gli operatori del settore si ricostruisce un modello produttivo gestito dai grandi commercianti locali in cui si inseriscono gli interessi dei caporali e della criminalità organizzata.

#Filierasporca

ROMA – Che fine fanno le arance raccolte sfruttando il lavoro dei migranti? E quali sono le responsabilità delle multinazionali, dei commercianti e dei produttori? A queste domande cerca di rispondere il rapporto “#FilieraSporca. Gli invisibili dell’arancia e lo sfruttamento in agricoltura nell’anno di Expo”, realizzato dalle associazioni “daSud”, “Terra! Onlus”, “Terrelibere.org” e presentato questa mattina alla Camera a Roma.
L’obiettivo è quello di risalire l’intera filiera delle arance raccolte in Sicilia e in Calabria, dal campo allo scaffale, per individuare i veri invisibili dello sfruttamento del lavoro in agricoltura. Un percorso gestito e diretto dai grandi commercianti locali che organizzano le squadre di raccolta, prendono accordi con le aziende di trasporto e con le multinazionali. Ed è proprio in questi passaggi che si inseriscono gli interessi dei caporali e della criminalità organizzata. Antonello Mangano, che ha curato l’indagine, spiega: “Il cuore della filiera è un ceto di intermediari che accumula ricchezza. Impoverisce i piccoli produttori e acquista i loro terreni. Causa la povertà dei migranti e nega un’accoglienza dignitosa”.

LA FILIERA DELLO SFRUTTAMENTO. “Mentre viene celebrato l’Expo come una grande occasione per rilanciare il Made in Italy, intere filiere agricole sopravvivono grazie allo sfruttamento del lavoro”, si legge nel rapporto. Tutta l’Europa mediterranea produce in condizioni di grave sfruttamento i prodotti ortofrutticoli destinati in gran parte ai mercati del Nord. Il modello si sta estendendo e non risparmia regioni un tempo immuni come ad esempio il Piemonte. Nella filiera delle arance convivono il bracciante agricolo sfruttato e la multinazionale, la grande distribuzione e la criminalità organizzata. Dal ghetto di Rignano (Foggia), alla baraccopoli-tendopoli di Rosarno (Reggio Calabria), fino all’area di Saluzzo (Cuneo), lo sfruttamento ha le stesse caratteristiche: un uso intensivo di manodopera migrante altamente ricattabile; situazioni abitative al di sotto degli standard minimi della dignità umana;  bassi guadagni a fronte di molte ore di lavoro; una  “cultura imprenditoriale” basata sull’illegalità e sulla presenza mafiosa; manodopera organizzata in squadre e capisquadra, con conseguente ricorso al caporalato. I braccianti spesso non vengono pagati, sono minacciati, subiscono aggressioni fisiche e stupri: sono ridotti in schiavitù.

PICCOLI AGRICOLTORI E GRANDI COMMERCIANTI. Secondo il rapporto il cuore del problema sono i grandi commercianti: comprano a prezzi irrisori la frutta dai piccoli agricoltori che non hanno alcun potere contrattuale e la rivendono a supermercati e multinazionali.
Spesso sono ditte a conduzione familiare, ma capaci di esportare nel mondo. Talvolta sono coinvolti nelle raccolte, il passaggio cruciale dello sfruttamento: sono proprio loro a rivolgersi ai caporali locali. Nelle campagne di Paternò, vicino Catania, sono arruolati anche i minori per la raccolta delle arance: prezzo a giornata 15 euro. A denunciarlo a febbraio 2014 è stata la Cgil di Catania con un esposto presentato alle autorità. “Sono a conoscenza che a Paternò esiste il ‘pizzo’ sul lavoro nero dei romeni”, dice un testimone, bracciante dell’Est. “Prima mi hanno chiesto cinque euro per il trasporto, poi metà del salario. Se non avessi accettato, non avrei più lavorato”. Gli aguzzini sono romeni “in stretta collaborazione con altrettanti mafiosi della zona che impongono un ‘prezzo’ su ogni bracciante che lavora nelle terre”, afferma la Cgil.
Un lavoratore racconta: “Il caporale faceva picchiare chi si ribellava e faceva in modo di non farci lavorare. Quando noi romeni iniziamo a capire l’italiano e notare i suoi ‘traffici’ ci fa tornare in Romania”. I fortunati che non pagano affitto per una casa con relativo pizzo sono alloggiati nei container di “Saro”, un imprenditore della zona che usa manodopera praticamente a costo zero.

IL VIAGGIO DALLA ROMANIA ALL’ITALIA. I caporali fanno arrivare braccianti da sfruttare dalla Romania. “Il mezzo di trasporto usato per arrivare in Sicilia è stato un autobus della ditta Tour, abbiamo pagato 100 euro ciascuno”, racconta Pavel, un ragazzo romeno. “A Salerno ci hanno fatto scendere per cambiare mezzo, siamo saliti su un minibus. Poi, sono venuti a prendermi e da quel giorno ho sempre lavorato nella ditta di ‘Saro’, che trattiene dalla paga 50 euro al mese per l’affitto. Lavoro nella raccolta delle olive e delle arance”.
Se Pavel lavora per altri, deve dare la metà al suo caporale. Vive in un container con un bagno senza neppure la porta, perché non può permettersi un affitto. Iulia, un’altra ragazza romena, racconta: “Mi sveglio alle quattro del mattino e arrivo di sera alle ore sette. E adesso mi dice che mi da tre euro ogni cassetta? No, non sono d’accordo con questa cosa. Avevamo concordato 3,50”. Alcuni caporali obbligano i braccianti a fare la spesa in un supermercato che trattiene gli scontrini con il nominativo scritto sopra. L’importo è poi sottratto dalle paghe. I sindacalisti denunciano che nel periodo della campagna di raccolta, il 40% del lavoro è a nero: negli agrumeti nella provincia di Catania lavorano 5000 stranieri, di cui 2000 romeni. La media è 10 ore di lavoro e il 50% del salario va al caporale.

COME FUNZIONA IL CAPORALATO. La manodopera nelle campagne viene organizzata in squadre e capisquadra, che diventano gli interlocutori unici per pagamenti e dispiegamento dei lavoratori nei campi. Mentre i medi produttori ricorrono direttamente ai caporali, le realtà più grandi preferiscono rivolgersi a strutture formalmente legali come le “cooperative senza terra”. Sono formate sia da italiani che stranieri, non producono ma offrono servizi come la potatura e raccolta. Spesso sono aziende serie, altre volte forme di caporalato mascherato. Dietro un contratto formale con l’azienda committente, infatti, possono nascondersi lavoro nero, decurtazione delle buste paga, evasione contributiva.

COME EVITARE I CONTROLLI. Formalmente i braccianti non superano mai i cinque giorni di lavoro a settimana. Oltre questo limite, infatti, scattano i controlli. Nelle campagne il lavoro nero è sostituito da quello “grigio”. Un contratto c’è, ma serve al datore di lavoro come scudo per le verifiche: è sufficiente segnare poche giornate e nessuno potrà contestare. Spesso è una tripla truffa: capita infatti che un piccolo proprietario non paga il lavoratore, non paga i contributi Inps dovuti e guadagna dalla disoccupazione come falso bracciante. C’è il rischio che le giuste indennità vengano tolte anche a chi le merita e c’è un danno erariale che colpisce tutta la collettività, anche chi non lavora in agricoltura. “Gli ispettori Inps sono dieci per tutta la provincia”, afferma la Cgil di Catania. “Dagli elenchi anagrafici si evince che a Paternò sono stati assunti meno di 300 lavoratori romeni con meno di 50 giornate l’anno, a fronte dei lavoratori italiani che hanno una media di 116 giornate lavorative”, denuncia il sindacato.

IL RUOLO DELLE MULTINAZIONALI. Sono le multinazionali a determinare il prezzo del succo d’arancia ma cosa fanno per verificare che i prodotti non vengono dallo sfruttamento? I promotori della campagna hanno chiesto ai grandi marchi della distribuzione e della produzione come Coop, Coca Cola, Conad e Nestlé, chiarimenti riguardo all’impegno contro il lavoro nero e la trasparenza nei confronti dei vari passaggi che portano i prodotti dalla campagna agli scaffali dei supermercati. Coca cola ha reso pubblici per la prima volta la lista dei propri fornitori italiani, mentre Coop ha descritto i meccanismi messi in atto a livello contrattuale per limitare il rischio di irregolarità tra i suoi sub-fornitori. Per quanto riguarda Nestlé, non ha ancora risposto. Il Gruppo Sanpellegrino, invece, vincola i propri fornitori al rigoroso rispetto di un codice di comportamento al quale si devono attenere nello svolgimento delle loro attività e si riserva di cessare il contratto qualora non venga rispettato quanto previsto dal documento.

SOLUZIONI POSSIBILI. Un chilo di arance costa 0,65 centesimi al mercato di Catania; 1,33 al supermercato nel centro; a Roma, il prezzo arriva a 2,10 euro. Puntare sulla trasparenza, dare il giusto a chi lavora eliminando gli intermediari inutili che sfruttano la manodopera, permetterebbe di abbassare il prezzo finale.
“Nell’anno di #Expo2015, attraverso #FilieraSporca chiediamo un impegno alle imprese e alle istituzioni attraverso la responsabilità solidale delle aziende, che devono rispondere per quanto avviene anche nei livelli inferiori della filiera – dichiara Fabio Ciconte di Terra!Onlus -, e soprattutto chiediamo una normativa sull’etichetta trasparente e l’elenco pubblico dei fornitori, perché informazioni trasparenti permettono ai consumatori di scegliere prodotti liberi da sfruttamento. Vogliamo incontrare il Ministro Martina per poter discutere le nostre proposte e, a partire da oggi, avvieremo una campagna pubblica in cui coinvolgere associazioni e singoli cittadini per una filiera trasparente”.
Lorenzo Misuraca della associazione “daSud” afferma: “Con questa campagna ci poniamo l’obiettivo di illuminare le zone d’ombra della filiera in modo che per le aziende e per la politica diventi più conveniente avviare percorsi virtuosi che chiudere gli occhi sulla schiavitù nelle campagne italiane”.

Da Redattoresociale


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