Caso Alpi-Hrovatin: Hashi scarcerato. E noi
ora aspettiamo la revisione del processo

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E’ un caldo venerdì di giugno. Sono le 15.46 quando, nella redazione di “Chi l’ha visto?”, squilla un telefono. “Buongiorno, sono don Luca”. Silenzio. Un attimo di esitazione. “Hashi mi ha pregato di chiamarvi per dirvi che è stato scarcerato”. Sembra emozionato, don Luca, mentre ci dà questa notizia. Perché ieri dopo sedici anni di reclusione, Hashi Omar Hassan, l’unico condannato per l’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, è uscito dal carcere di Padova per essere affidato ai servizi sociali. “Sconterà così gli ultimi tre anni di pena, da uomo libero” ci dice il suo avvocato Douglas Duale. “L’unico obbligo – ci spiega – è quello di rientrare nella struttura che lo ospita entro le dieci di sera”.

Avrà un lavoro, Hashi. Avrà una nuova vita. Quella vita che gli è stata negata per sedici anni quando, nel 2002, venne condannato in appello – dopo un’assoluzione in primo grado – a 26 anni di carcere con l’accusa di aver partecipato all’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin avvenuto a Mogadisco nel marzo del 1994. A inchiodarlo, la testimonianza di Ahmad Ali Rage detto Gelle, un giovane somalo che davanti alla Digos di Roma e al pm Franco Ionta – nel 1997 – raccontò che quel 20 marzo lui era lì, sul luogo dell’attentato e vide tutto. Vide la Land Rover che tagliò la strada al pick-up di Ilaria e Miran. Vide gli uomini del commando sparare. In mezzo a loro – secondo la testimonianza di Gelle – c’era anche Hashi Omar Hassan.

Eppure, il giorno del processo, Gelle non si presentò in aula. Il principale accusatore di Hashi, il supertestimone dell’omicidio Alpi-Hrovatin, non confermò davanti al giudice il racconto reso agli inquirenti. Non indicò il colpevole in aula. Semplicemente, Gelle, non c’era. E nessuno andò a cercarlo.

Nonostante questo, nonostante nella sua deposizione agli inquirenti Gelle avesse descritto una scena dell’agguato diversa dalla realtà, con Ilaria seduta sul sedile anteriore del pick-up e Miran su quello posteriore (mentre era esattamente il contrario) Hashi Omar Hassan – in secondo grado – venne condannato a 26 anni di reclusione.
E poi il silenzio.

Passano gli anni. Uno, due, dieci. Hashi viene dimenticato. Da tutti, ma non da Luciana Alpi, la madre di Ilaria, una donna determinata che sempre si è battuta per cercare la verità, per sapere cosa era successo e non ha mai creduto alla colpevolezza del giovane somalo. “Un caprio espiatorio” secondo l’avvocato Duale. Trasferito da un carcere di massima sicurezza all’altro, prima Rebibbia, poi Sulmona e Biella. “Ho visto l’inferno” ci ha raccontato Hashi tre mesi fa. E quell’inferno si chiama Sulmona. Il carcere dei suicidi. E’ stato recluso lì per due anni e quattro mesi. “Non volevo pensare – sussurra Hashi – perché i brutti pensieri tornano sempre. Ma alle volte non puoi. E i brutti pensieri ti fanno impazzire. Un ragazzo che conoscevo – continua Hashi – si è tolto la vita in carcere. Non ha sopportato quel dolore. Ma io sapevo di essere innocente. Sapevo che prima o poi sarebbe arrivato qualcuno e avrebbe detto che sono innocente. Non potevo morire lì dentro”.

E a dire che Hashi è innocente, alla fine, qualcuno è arrivato. Ed è proprio l’uomo che l’ha fatto finire in prigione: Gelle. Irreperibile dal 1997 per la giustizia italiana, Gelle ha passato qualche tempo in Germania per poi stabilirsi nel Regno Unito. In una relazione dettagliata dell’Interpol – del 2006 – c’è un indirizzo di Birmingham. I colleghi Luciano Scalettari e Andrea Palladino, un anno fa, vanno a quell’indirizzo e riescono a parlare con la ex moglie di Gelle, ma lui non c’è.

Federica Sciarelli, così, ci chiede di fare un tentativo, di provare a cercare il supertestimone. A gennaio, dopo dieci mesi di ricerche, riusciamo ad avere un contatto con lui. All’inizio Gelle è diffidente, ma grazie alla mediazione lunga e non sempre facile della comunità somala del Regno Unito riusciamo a incontrarlo. E’ il 14 febbraio del 2015. Nei locali di un centro culturale somalo ci troviamo davanti a Gelle, il supertestimone svanito nel nulla nel 1997.

Gelle, subito, ci racconta di aver mentito. E che in carcere c’è un innocente. “Ho detto una bugia – spiega – io non ero lì quel 20 marzo, non c’ero. Non ho visto chi ha sparato a Ilaria e Miran”. In quelle due ore trascorse assieme, Gelle ci racconta che “gli italiani avevano fretta di chiudere il caso” di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, “volevano trovare un colpevole” per il duplice omicidio e gli avevano promesso soldi e la possibilità di fuggire dalla Somalia in guerra in cambio di una falsa testimonianza. Doveva accusare un giovane somalo, Hashi detto “Fawdo” – fatto poi arrivare in Italia con un pretesto, includendolo in una lista di persone che avrebbero dovuto testimoniare davanti alla commissione Gallo su presunti abusi dell’esercito italiano in Somalia – di quel duplice omicidio.

Gelle – con noi – cerca di giustificarsi, dice che voleva fuggire dalla guerra e che non voleva che un innocente finisse in carcere. Non sapeva nemmeno chi fosse Hashi. Per questo è scappato dall’Italia, per non presentarsi al processo. “Non avrei mai pensato che, senza la mia deposizione davanti a un giudice, un uomo potesse essere condannato” ci dice. “Ma quello che dico, non viene verificato?” E così quando nel luglio del 2002 lo stesso Gelle, guardando la BBC, viene a sapere della condanna di Hashi, chiama un giornalista somalo. “Gli ho spiegato – conferma – che era tutta una bugia, che io non avevo visto niente, che non ero là”. In quella telefonata – registrata – Gelle ritratta la sua deposizione.

Ma non si può provare che quella voce sia di Gelle. E allora perché nessuno è andato a cercarlo?
Oggi Hashi ha 40 anni. Ne aveva 24 quando è stato chiuso in carcere per quella falsa testimonianza. “Hashi Omar Hassan è finalmente tornato in libertà” dice l’avvocato Duale. “E’ assolutamente innocente e la prossima settimana consegneremo tutti gli atti alla Corte di Appello di Perugia per chiedere la revisione del processo”.

E noi la aspettiamo, la revisione del processo. Perché se Gelle ha mentito, se lui lì non c’era, se lui non ha visto nulla, allora significa che non solo un innocente ha passato in prigione 16 anni della sua vita. Significa che dopo 21 anni – ancora – non c’è un colpevole per la morte di Ilaria e Miran. E questo non è accettabile. Non lo è per nessuno, per chi ha sempre cercato la verità. Non lo è per Luciana Alpi, una donna straordinaria, instancabile, combattiva che da sempre chiede giustizia e vuole sapere perché le hanno ammazzato quell’unica figlia. Vogliamo sapere cosa è successo. Lo dobbiamo a Luciana. E soprattutto lo dobbiamo a Ilaria e Miran.


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