I rom bulgari tra Roma e la Calabria, una silenziosa rivolta contro i luoghi comuni

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Un paese della Calabria, la casa di una giovane coppia con tre figli. Alcuni amici venuti in visita. In un lato del soggiorno la postazione internet e l’angolo della musica. Si conversa, interrotti ogni tanto da un cellulare che squilla, bevendo caffè. Si parla della vita quotidiana, dei bambini, del lavoro. Un lavoro duro, nelle campagne, dalle 6 del mattino per 25 euro al giorno. D’estate anche dodici, spesso senza straordinari. E il 1° maggio? Al lavoro anche quel giorno, la campagna ha un altro calendario. Ed ecco che il padrone di casa apre una bottiglia speciale, come si usa nel Sud per onorare l’ospite. Siamo in Calabria, sarà un liquore al bergamotto o alla liquirizia. No: si tratta di rakija alle rose. Che roba è?
È il caso di dare un nome ai padroni di casa. Lui si chiama Rado, ha 32 anni. Lei Irina, ne ha 22. E la “Rakja alle rose” è un famoso distillato bulgaro. Perché Rado e Irina sono bulgari. E sono rom. Protagonisti, assieme ad altri diecimila, di una silenziosa immigrazione verso l’Italia cominciata all’inizio degli anni Novanta quando la Bulgaria, come tutti i paesi satelliti del blocco sovietico, si trovò in ginocchio. E per i rom non ci furono più nemmeno quei piccoli lavori marginali grazie ai quali riuscivano a sopravvivere.
A raccontare l’incontro nel soggiorno della casa di Pizzo Calabro – e tantissimi altri incontri in varie parti d’Italia – è la sociologa Maria Rosa Chirico, autrice del saggio «Una migrazione silenziosa. Rom bulgari in Italia» appena pubblicato dalla fondazione Migrantes ed edito da Tau. «Un saggio – scrive Mario Morcellini nella presentazione che fa onore alla sociologia militante, quella che fa i conti col sapere universitario, ma poi s’impegna nel tagliando eticamente successivo alla conoscenza sociologica: il passaggio all’intervento sociale».
Ma spostiamoci ora alla periferia di Roma. Vedremo qua e là, ai lati delle strade, sotto i ponti, nei campi di sterpi, “insediamenti spontanei” – ma anche “abusivi” per le autorità – dove sotto tende e baracche, vivono, ma forse è una parole un po’ grossa, intere famiglie con bambini piccoli. Bene, molto spesso quella gente è la stessa gente che abbiamo incontrato, all’inizio di questo racconto, a Pizzo Calabro. Proprio la stessa: per lingua, cultura, data dell’arrivo in Italia. La stessa gente che ha conservato le stesse abitudini. A partire da quella di mantenere saldi rapporti con le famiglia di provenienza rimaste in Bulgaria, sia inviando sostegni economici e regali, sia, periodicamente, rientrando per incontrarle. Ma com’è stato possibile che in un arco relativamente breve di tempo – un quarto di secolo dall’inizio di questa migrazione silenziosa – si siano create, dalla medesima base di partenza, situazioni così diverse? La risposta – ed è questo l’aspetto forse più “militante” della ricerca – chiama in causa la responsabilità delle istituzione e delle modalità di accoglienza. Perché la vicenda dei rom bulgari che vivono in Italia dice che il “fai da te”, oltre a una serie di circostanze fortunate e di casualità strabilianti, produce risultati che per le istituzioni paiono inarrivabili.
Tra questi casi strabilianti individuati da Maria Rosa Chirico c’è, per esempio, il fatto che i rom bulgari che si sono insediati a Pizzo Calabro (sono circa un migliaio su una popolazione residente di diecimila abitanti) hanno scoperto di avere in comune un santo con la gente del posto: San Giorgio. E di avere un altissimo numero di “Giorgi” sia gli uni, sia gli altri. Parrebbe solo una curiosa coincidenza se non fosse che la religiosità porta con sé una certa idea di famiglia, di stare assieme, di sostenersi e aiutarsi. Insomma, un’idea molto simile di comunità.
Ma attenzione. L’incontro, e la convivenza, sono resi possibili anche e forse soprattutto dal fatto che – smentendo in modo clamoroso il più radicato dei luoghi comuni – i rom bulgari restituiscono l’ospitalità col lavoro. E con la capacità di acquisirne le modalità, le pratiche artigianali specifiche. Le donne sono diventate provette intrecciatrici delle cipolle di Tropea. E a volte chi non lavora nei campi, trova occupazione nell’attività più fiduciaria e “intima”, svolgendo l’attività di badante. Cioè “entrando dentro casa” delle persone del posto. Né si creda che i rom bulgari non condividano con gli altri rom problemi quali la mancata scolarizzazione di buona parte dei bambini. I problemi ci sono tutti e dove si sono attenuanti è stato nei luoghi del “fai da te” dell’integrazione.
Una ricerca non facile che ha dovuto fare i conti con un “doppio livello” di riservatezza e di diffidenza. Il primo determinato da una comunità abituata a vivere in disparte, svolgendo lavori umili, come il riciclaggio dei rifiuti e la raccolta della carta, i mercati allestiti nel buio della notte, gli sgomberi non preannunciati che violano sempre i più elementari diritti, avvezza a respirare sempre un’aria ostile. Il secondo livello eretto dall’impatto con l’Italia. Un impatto così duro e freddo che i “felici” rom bulgari che vivono nel Sud risentono del clima che respirano i loro amici e parenti rimasti nella metropoli. Tendono a continuare a mimetizzarsi, a nascondere la loro origine. A volte non solo non rilevano di essere rom, ma nemmeno bulgari. E si presentano come rumeni.
Ma, scrive Maria Rosa Chirico, «le persone che ho conosciuto, comprese coloro che vivono negli insediamenti spontanei, pur sperimentando condizioni di vita disagiate non sono dei vinti o dei perdenti e, nonostante le condizioni misere, non sono affatto dei miserabili». E ancora: «Ho potuto osservare da vicino, nel volto nuovo e poco conosciuto di tanti rom e romnià (uomini e donne) la dignità silenziosa di chi è convinto che certi percorsi di emancipazione e di legalità passino soprattutto attraverso l’acquisizione di elementari, quanto imprescindibili diritti, come una casa, un lavoro, un sistema di relazioni che non esclude diversità». Per le istituzioni, molto materiale su cui riflettere.


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