Grass e Galeano, d’improvviso sentirsi più soli

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Günther Grass ed Eduardo Galeano, scomparsi ieri nei due continenti che hanno amato e saputo raccontare come pochi altri, erano molto più di due grandi scrittori. L’uno, tedesco, morto a ottantasette anni a Lubecca, è stato per decenni la coscienza critica di una Germania ancora in bilico fra il suo tragico passato e una volontà di futuro che, spesso, si esprime in un malcelato desiderio di dominio, come testimoniano le scelte di questi ultimi anni e il tentativo di costituire un'”Europa tedesca” senza assumersi le responsabilità di un europeismo maturo, in grado di trasformare il suo ruolo di paese guida in un valore aggiunto per la comunità. Al contrario, questa Germania scolpita al centro dell’Europa, crocevia fra est e ovest, stretta fra il vecchio asse occidentale con la Francia e la tentazione di guardare ai nuovi mercati che nascono a oriente, è oggi percepita come un freno alla modernità e, spesso, come un oppressore senza pietà dai popoli più colpiti dalla crisi e dall’incertezza.

L’altro, uruguaiano, scomparso a settantaquattro anni a Montevideo, è stato la voce narrante dell’America Latina, di cui ha esplorato i limiti e la magia, le speranze e le contraddizioni, descrivendone le vene profonde e facendocene conoscere miserie e glorie, grandezze e aberrazioni, la poesia del calcio e la crudeltà dei regimi tirannici che, a cavallo fra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta, ne insanguinarono l’anima e ne uccisero le prospettive, trasformandosi nell’immaginario collettivo in mali atavici e ricorrenti, come una sorta di destino comune, ineluttabile e meschino.
Avevano entrambi, Grass e Galeano, non solo una penna magnifica quanto, soprattutto, un pensiero libero, intenso, anti-conformista, autentico sia nelle passioni che nell’individuazione dei virus corrosivi dei rispettivi tessuti sociali; un pensiero sincero fino alla fine, senza infingimenti, senza omissioni di comodo, senza narrazioni a favore di questo o quel governante o personaggio storico.
Tanto l’europeo quanto il sudamericano hanno sperimentato sulla propria pelle la spietatezza delle dittature, condannandone sia gli aspetti tragici e a tutti evidenti sia, soprattutto, i lati grotteschi e, proprio per questo, assai più pervasivi e duri da estirpare, con quel misto di complicità, corruzione morale e materiale, silenzio compiacente e distruzione di ogni idea di cambiamento, di rinnovamento, di pulizia, di sguardo nobile al futuro, capace di spingersi oltre l’orizzonte.
Una vita, in entrambi i casi, forgiata dal contatto con l’aberrazione e i tentativi di rinascita; un’esistenza perennemente in bilico, costantemente priva di punti di riferimento, sempre costretta a mettersi in discussione e a mettere in discussione l’ordine costituito, anche quando questo appariva ai più democratico o, comunque, in una certa misura, accettabile.
Due biografie, due storie, due destini che si intrecciano e si confrontano con quelli delle rispettive comunità: di un continente che ha conosciuto sette decenni di stabilità ed è oggi in preda ad un pericoloso declino e di un altro che, invece, dopo aver conosciuto l’inferno, sembra avviarsi verso un minimo di serenità e di liberazione dall’imperialismo americano.
Ad accomunarli, tuttavia, per noi che ora conserviamo e rileggiamo le loro pagine in cerca di un valore, di un’idea o anche solo di un ideale cui aggrapparci in questo tempo indecifrabile, è più che mai il senso di vuoto, di assenza, di disperata e incolmabile mancanza che ci lasciano, mentre la storia continua il suo percorso e quest’occidente quasi privo di narratori cerca, a fatica, di orientarsi, al momento con scarsi risultati.


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