25 APRILE: I ragazzi che furono

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C’è una riflessione dello scrittore francese George Bernanos che mi torna spesso in mente: “Ho visto tanti morti nella mia vita, ma più morto di tutti è il ragazzo che io fui”. E nel formulare questo pensiero, facilmente estendibile anche alla mia generazione, la mente non può che correre ai ragazzi di ieri, quegli uomini e quelle donne che hanno ormai i capelli bianchi e si avviano alla fine della vita che combatterono sui monti e in tutti i luoghi dove è stata scritta una delle pagine più eroiche della nostra storia, giustamente definita dall’ex presidente Ciampi il “secondo Risorgimento”.

Al bando la retorica, per carità, ma teniamo sempre vive le parole di Piero Calamandrei sull’importanza e sul valore di quella stagione, non tanto per ciò che essa rappresenta in sé, che pure è importantissimo, quanto per ciò che ci ha insegnato e regalato, ossia la nostra Costituzione, la nostra democrazia, la nostra libertà e un’occasione di riscatto dopo la barbarie del fascismo, della guerra, delle Leggi razziali, degli oppositori spediti in carcere o al confino e altri abomini che troppe volte, negli ultimi anni, sono stati colpevolmente derubricati a vicende secondarie. Non è così, e mi torna in mente la lezione di un altro protagonista di quegli anni: il partigiano Biagi, il quale sosteneva che bisogna avere rispetto per tutti i giovani che non hanno avuto un domani ma non è accettabile l’equiparazione fra quanti hanno combattuto dalla parte di Hitler e dei repubblichini e quanti, invece, hanno perso la vita per restituire all’Italia i beni imprescindibili che le erano stati strappati via con la violenza. Lo ha ribadito qualche giorno fa il presidente Mattarella, in un’Aula di Montecitorio straordinariamente gremita di partigiani, padroni di casa nel luogo per cui hanno rischiato la vita, simboli da consegnare alle nuove generazioni non sotto forma di santini ma di ricordi, di testimonianze e, più che mai, di insegnamenti, affinché non si ripresentino quei giorni disperati e maledetti, quei giorni in cui – scrisse Quasimodo – “le nostre cetre erano appese”, nell’impossibilità di occuparsi d’altro che non fosse la dignità e il ritorno alla normalità della Patria.

E qui mi torna in mente un altro ragazzo di allora, per la verità un giovane uomo: Norberto Bobbio, il quale contestava l’ineluttabilità delle conquiste democratiche, sostenendo che, specie in un Paese come il nostro, andassero difese, sostenute e rinvigorite ogni giorno per poter resistere agli attacchi di quel fascismo strisciante e sempre presente che Piero Gobetti, morto a venticinque anni per le percosse subite dai fascisti, aveva definito l’“autobiografia della Nazione”.

Perché è inutile, al netto di tanti proclami e di tante stucchevoli colate di retorica, concentrarsi solo su quei lontani giorni di settant’anni fa, omettendo di ricordare che il periodo che stiamo attraversando non è meno pericoloso e carico di insidie, benché finora, almeno in Italia, non sia stato sparato un solo colpo. A tal proposito, è bene sottolineare che non è vero ciò che sostengono gli analisti e i commentatori interessati: non è vero che abbiamo raggiunto il massimo livello di benessere possibile perché questo non è benessere ma una moderna forma di schiavitù, con il lavoro trasformato in merce, la Costituzione sfregiata, le istituzioni offese e umiliate ogni giorno e gli ideali stessi della lotta di Liberazione messi costantemente in discussione, fino ai tentativi beceri di qualche fascistello mai pentito di porre sullo stesso piano partigiani e repubblichini, dando vita a un revisionismo tanto sconcio quanto dannoso per la coesione sociale del Paese.

Per quanto, dunque, le celebrazioni debbano essere inclusive e rappresentative di tutte le sensibilità politiche, ci auguriamo da anni di non assistere alle sfilate ipocrite di chi esalta i partigiani il 25 aprile e ne calpesta la memoria il resto dell’anno, di chi sostiene lo scempio della Costituzione in atto, di chi sta rispondendo con favore alla voglia di autoritarismo e decisionismo populista tanto cara ai poteri finanziari internazionali, di chi minimizza e di chi sa tutto ma preferisce tacere per convenienza e per difendere la poltrona del momento. Tutte queste persone sarebbe meglio che, nel settantesimo anniversario della Liberazione, andassero a fare un picnic coi familiari mentre l’Italia civile, partigiana e desiderosa di conservare i valori che i ragazzi di allora ci hanno lasciato in eredità sfilerà in piazza insieme al presidente Mattarella, custode del miglior cattolicesimo democratico e di quei valori resistenziali che hanno segnato la vita e l’azione politica dei Dossetti, dei Moro, di Benigno Zaccagnini e di altri maestri e punti di riferimento dell’attuale Capo dello Stato.

Senza voler escludere nessuno, saremmo felici di non veder sfilare col fazzoletto tricolore al collo coloro che poi si alleano con gli ex sostenitori, mai pentiti, di quello Scajola che era ministro dell’Interno nei giorni del massacro della “Diaz” e della barbarie di Bolzaneto; coloro che inneggiano al liberismo selvaggio; coloro che hanno sostenuto e votato lo stravolgimento dello Statuto dei Lavoratori; coloro che stanno cambiando la Costituzione a suon di insulti e andando avanti a colpi di maggioranza nella notte; coloro che non dimostrano alcun rispetto nei confronti di sindacati e minoranze; coloro che sostengono una concezione padronale della democrazia e chi non ritiene intollerabile stipulare accordi con gli ex membri della loggia massonica P2, costituita a suo tempo per frenare e infine far naufragare il processo di ammodernamento in chiave progressista del Paese.
Questi sono i nostri morti, questi sono i sogni infranti di più di una generazione, questa è la nostra storia e non si può ridurre alla mera disputa fra destra e sinistra, vecchio e nuovo, anche perché in questo caso il discrimine è tra chi considera la democrazia un valore negoziabile e riducibile in cambio del feticcio della governabilità e chi, invece, si batte per tenere alta la bandiera della rappresentanza e del rispetto di tutte le opinioni.

Buon 25 aprile Italia, e per usare le parole del capitano Franco Balbis, decorato a El Alamein e fucilato dai fascisti il 5 aprile 1944: “Possa il mio sangue servire per ricostruire l’unità italiana e per riportare la nostra terra a essere onorata e stimata nel mondo intero”.


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