L’influenza della pubblicità sui bambini

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Oggi l’esplosione del marketing indirizzato ai bambini è ben mirato, perfezionato con metodo scientifico e risulta più pervasivo e invadente che mai, di un’intensità sconvolgente tanto da costituirne uno degli argomenti di interesse pubblico crescente. La pubblicità si rivolge ai bambini fondamentalmente per tre motivi: vuole renderli insistenti nella richiesta ai genitori dei prodotti a loro destinati (Nag Factor o fattore capriccio); ottenere, con le loro richieste assillanti, che questi influenzino gli acquisti degli adulti, non solo sui prodotti a loro destinati, ma anche su altre decisioni economiche della famiglia (per questo anche le pubblicità per adulti cercano, in maniera subliminale, di attirare l’attenzione dei bambini); fidelizzarli alla marca, prima ancora che ad un prodotto, in quanto essi rappresentano gli adulti del futuro. I bambini, infatti, sono consumatori attuali e futuri e per questo sono bombardati dalla pubblicità, che sfrutta la loro incapacità critica (o capacità ridotta, a seconda dell’età) e non si rendono conto dell’intento persuasivo implicito nello spot, eseguendo con fiducia ciò che gli viene suggerito come un diritto. I genitori spesso si sentono schiavi di questa azione persuasiva dei piccoli, che li assillano con i capricci per raggiungere lo scopo. In questo modo il marketing infrange anche le regole educative e mina il rapporto genitori-figli, poichè il genitore viene visto dal bambino come colui che gli impedisce di avere quell’oggetto, di suo diritto.

Lo spot televisivo è lo spettacolo preferito dai bambini perché ricco di stimoli emotivi, grazie all’efficacia dei linguaggi e la sua struttura che si adatta molto bene alla loro mente, per questo essi sono in grado di ricordarne dettagliatamente un altissimo numero. La pubblicità è resa efficace, specialmente nei confronti di un pubblico infantile, grazie ad alcune caratteristiche peculiari: la brevità spazio-temporale dei messaggi, consente una fruizione intensa in un tempo ridotto, tanto da non lasciar lo spazio necessario per la riflessione; le situazioni che ritrae sono quasi sempre facilmente riconoscibili dai bambini; le parole, poche e ripetute, sono associate in maniera stretta alle immagini per facilitarne la comprensione e l’assimilazione; l’avventura che la rende interessante; la presenza di personaggi verso cui i piccoli si identificano e ne assumono i comportamenti, come parlano, come si muovono, ciò che indossano, ciò che mangiano, ciò che sognano. L’intento giocoso rende il messaggio maggiormente fruibile dal bambino che si appropria del comportamento come norma.

Non a caso, sono in aumento i canali dedicati ai piccoli, dove, durante i break pubblicitari, inseriti subito dopo le sigle, vengono sponsorizzati i prodotti creati ad hoc per loro: cibi, giocattoli, abiti, videogiochi, figurine e quant’altro. Molti cartoni animati sono concepiti in un’ottica di commercializzazione in modo da poter vendere tutto ciò che è collegato ad essi. Così facendo è stata creata la continuità tra il programma e la pubblicità: tutto è iniziato dal programma ‘Teletubbies’ il famoso gruppo di umanoidi colorati che tutti abbiamo conosciuto, con la pancia a forma di TV, che emettono suoni simili a quelli pronunciati da un bimbo piccolo. Uno degli scopi di questo programma era appunto quello di coinvolgere il bambino ancora piccolissimo nel mercato dei prodotti di marche pubblicizzate, infatti, poco dopo la messa in onda del programma sono partite le inziative commerciali, facendo associare i personaggi, ormai divenuti familiari, a prodotti alimentari come i cereali, al cui interno si trovavano i loro gadeget.  Questa è una evidente strategia di marketing per attuare la cosidetta fedeltà del cliente “dalla culla alla tomba”.

Questa linea di azione viene ripresa attraverso programmi innovativi come “Peppa Pig” che ha soppiantato l’ormai obsoleto Teletubbies. Peppa Pig, infatti è valutata 312 milioni di Sterline poichè è il motore di tutto il merchandising dedicato, che raccoglie tutti gli aspetti della vita del bambino, dal momento in cui si alza a quando torna ad andare a letto: merchandise per la cameretta e il letto, compreso il pigiama e il giocattolino per dormire, merchandise per i pasti, per i giochi e il vestiario con i relativi accessori. Tale invasività e pervasività ricrea la vita del bambino in funzione del personaggio televisivo del momento, in questo caso “Peppa Pig”. Infatti, quanti bambini sentiamo parlare e nominare Peppa Pig come personaggio riconosciuto e parte della loro vita? Quanti bambini si circondano (o i genitori stessi li circondano) di merchandise relativo a questo personaggio?

Più complesso diventa comprendere le determinanti psicologiche e comportamentali che innescano o incentivano il nag factor. Secondo McNeal alla base del nag factor si nasconderebbe un’educazione carente da parte dei genitori. In questo senso, è necessario controllare gli effetti della pubblicità, affiancando il bambino anche nella socializzazione al consumo, attraverso una corretta educazione.

L’alta fruizione della tv, unita ad una programmazione scarsamente differenziata in funzione delle fasce d’età e spesso non rispettosa delle fasce orarie dedicate alla tv per ragazzi (fascia di tv per ragazzi/protetta 16-19.00; fascia di tv per tutti 8-20.00), giustificano l’urgenza di predisporre percorsi di educazione alla tv, intesi quali strumenti che consentono al ragazzo di approcciare in maniera attiva, consapevole e critica al mezzo televisivo per giungere a comprenderne il funzionamento, le tecniche esecutive, le dinamiche di tipo economico e socioculturale sottostanti.

Secondo Anna Oliverio Ferraris “una campagna pubblicitaria ben congegnata può mettere in crisi il rapporto genitore-bambino”. Sentirsi dire “tu non mi vuoi bene” o “per colpa tua…” può mettere a dura prova la fermezza di un genitore e se la richiesta del bambino è in contrasto con la volontà ed i valori dei genitori il lavoro da fare sarà duplice.

Da un lato i genitori dovranno lavorare su se stessi, individualmente e come coppia, per mantenere la loro posizione o valutare, eventualmente, le motivazioni di un cambiamento della regola, per mantenere e rafforzare la fiducia nel proprio ruolo e nelle proprie capacità genitoriali. Dall’altro dovranno lavorare insieme ai figli per convincerli del loro punto di vista, argomentando le loro motivazioni, supportando i figli ribadendo l’amore per loro e aiutandoli a gestire il confronto con il gruppo dei pari. Risposte tipo “No, perché no!” o “No, perché è così e basta” non saranno di grande aiuto al rapporto tra genitori e figli, soprattutto con i bambini più grandi che sono in grado di argomentare e gestire il rapporto con i genitori in maniera più elaborata rispetto ai bimbi più piccoli.

Il rischio è che la stanchezza, i sensi di colpa, la paura che il proprio figlio possa sentirsi diverso dal gruppo dei pari, ma anche la paura del giudizio di conoscenti, insegnanti o altri genitori, portino il genitore a cedere, senza che il cambiamento di opinione sia giustificato e che questo comportamento mini l’autorevolezza e la sicurezza dei genitori; per non parlare di quello che può succedere quando i genitori si comportano in maniera ambivalente e opposta, mandando ai figli il messaggio che “se mamma non vuole, posso chiedere a papà”, o viceversa.

È importante favorire lo sviluppo di un ambiente familiare in cui i bambini possano sperimentare degli spazi di confronto, riflessione e ragionamento autonomi, ma anche di ascolto dei propri bisogni emotivi e fisici e non crescano guidati da stimoli condizionanti in grado di modellare ed eteroindirizzare totalmente esigenze, bisogni e comportamenti.


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