Banda ultralarga

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Il passato non è una terra straniera, per “contraddire” il titolo di un bel libro di Gianrico Carofiglio. Soprattutto, gli errori non possono essere rimossi. E’ ciò che sta accadendo, invece, nella vicenda della rete a banda ultralarga italiana: vale a dire la prossima (già cominciata) puntata della storia della comunicazione. Detto per inciso , chissà se il portentoso incremento delle piattaforme diffusive ci salverà o ci condannerà, di fronte alla deriva della “dittatura dell’immediatezza”. Ne parla con analisi acuta il saggio di Pierre Zémor in “Storytelling Europe” (2015), cui rimandiamo. Lo scoppiettante universo delle tecniche rischia, poi, di finire come le cattedrali nel deserto di antica memoria, se non si rilancia l’industria culturale e se l’immaginario produttivo non è messo in condizione di moltiplicare energie e opportunità con mirati interventi pubblici. Per capire a che punto sta il disastro italiano, è doveroso fare sempre tre flashback: il repentino abbandono -con tanto di vincolo legislativo- della televisione via cavo negli anni settanta; il blocco della cablatura in fibre ottiche del territorio nazionale avviato dall’allora monopolista Stet/Sip a metà degli anni novanta; la discutibile modalità con cui fu gettata sul mercato Telecom.

Repetita iuvant, mentre perseverare è diabolico. Se non si ripensa fino in fondo al problema, ogni soluzione diviene ardua o propagandistica. In verità, fu scelta colpevolmente l’occupazione del sistema da parte della tv generalista. L’Italia è nel fondo classifica e i traguardi dell’Agenda europea non possono essere raggiunti con qualche grida. Come è apparso l’appello del Governo agli operatori di mettersi insieme. Giusto proposito, se è preceduto e accompagnato da una effettiva visione strategica dello Stato. Lo Stato innovatore accuratamente descritto nel suo efficace volume da Mariana Mazzucato. Va, per dirne una, agevolato il consumo di un’offerta più alta e specializza di quella attuale attraverso il sostegno delle fasce deboli. Finché non si agisce sulla domanda, difficilmente farà un balzo l’offerta. Così, sono sembrate pertinenti le considerazioni svolte in una recente audizione parlamentare da “Fastweb”, in merito al costo eccessivo della metodologia cosiddetta “FTTB/H” (Fiber to the Building/Home), cioè l’allaccio diretto all’abitazione domestica. Che creerebbe una divisione tra ricchi e poveri. Ancora per un periodo, per colmare la distanza italiana dal cuore dello sviluppo, sarebbe preferibile la gemella “FTTC” (Fiber to the Cabinet): la copertura fino agli armadi di strada, da connettere via via agli utenti con la pluralità di mezzi fissi e mobili di cui si dispone e con accesso uguale per tutti.

Per questo –si perdoni il richiamo un po’ blasfemo- è da proporre una sorta di “compromesso storico” tra i vari soggetti, riconoscendo a Telecom il suo insediamento storico e ai concorrenti la piena legittimità di partecipare alla nuova fase. Dentro un quadro di coraggioso investimento pubblico nell’economia della conoscenza. Il Governo ha parlato di sei miliardi di risorse a disposizione, quattro dei quali ottenuti con forme di defiscalizzazione. Per l’intanto, tuttavia, siamo fermi alle linee guida, in attesa del più stringente decreto attuativo, previsto per i prossimi giorni. E’ una grande questione politica, il territorio vero dell’evoluzione, laddove la polarità dialettica “innovatori/conservatori” passa dal marketing degli slogan alla realtà dura e pura.

Fonte: “Il Manifesto”, mercoledì 25 marzo


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