“Siamo noi dietro il filo o piuttosto loro?” La storia di Etty Hillesum, scrittrice olandese di origine ebraica, vittima della Shoah

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“Condivideremo onestamente il freddo e il buio e la minestra di piselli e il filo spinato, e forse sapremo anche sopportare insieme ogni cosa”. Con queste parole Etty Hillesum descrive il futuro, all’amico Osias Kormann, in lettere 1942-1943, nel suo spostarsi tra Amsterdam e Westerbork, il campo di smistamento, in Olanda ” l’ultima fermata prima di Auschwitz” dove si occupava di accudire i malati.
Etty nasce nel 1914, e a ventisei anni inizia a scrivere il suo Diario e le sue lettere, sono gli anni in cui i nazisti diedero vita alla prima grande retata di ebrei olandesi, costringendoli ad appuntare sui loro abiti la stella gialla e portandoli ad Amsterdam con l’intento di deportarli nel più breve tempo possibile in Polonia e dichiarare così  l’Olanda “esente da giudei” .
Nelle sue lettere traspare il desiderio di tornare, ogni volta che si allontana per problemi di salute, al campo di prigionia, perché chi crede che esiste qualcosa di positivo in tutte le situazioni: “Può affermarlo solo se personalmente non sfugge alle circostanze peggiori”.
Quello di Etty Hillesum é il racconto di chi sa di possedere un amore illimitato verso l’umanità: tedeschi, olandesi, ebrei e non ebrei. Di chi sente di dover donare questo sentimento, di chi crede che dal mondo un giorno spariranno i fili spinati, e che li vive come: “Una questione di opinioni”. Di chi si chiede se: Siamo noi dietro il filo o piuttosto loro.
Il suo riuscire a reperire delle calzature per -la ragazza senza scarpe- costretta in un letto e che ora può di nuovo affrontare il fango, un fango talmente presente nel campo che: “Fra le costole bisogna possedere un gran sole interiore” per non arrendersi.
La sua forza nel vivere l’arrivo dei genitori e del fratello, un padre che racconta felice come un fanciullo per non essere calpestato nell’inferno delle grandi baracche.
La sua ambizione di riportare alla luce a Westerbork la biblioteca custodita in una cantina, che fa pensare ai Bücherverbrennungen, il rogo dei libri del delirio nazista, la memoria della vita oscurata dalle fiamme dell’orrore, e appartiene solo a chi crede fermamente che malgrado: “Le famiglie lacerate, le proprietà sottratte, le libertà perdute” si deve continuare a vivere la propria vita in modo ricco di significato o altrimenti è più giusto morire. Di chi crede ancora alla vita in cui il termine deportazione non aveva alcun senso.
Forse perché in quel luogo di prigionia è ancora possibile farlo, e la convivenza forzata appare sopportabile, quasi un privilegio rispetto alla visione di quei treni con il loro carico di uomini, donne, invalidi, bambini, malati, anziani che a migliaia vengono rastrellati e davanti ai quali: “Ci si vergogna di esser stati presenti senza averlo potuto impedire”.
Accettare di dover partire per la Polonia, accettare il proprio destino, pensare che: “I propri fratelli di razza olandesi faticano sotto un cielo ignoto, o stanno imputridendo in una terra ignota”, ricordare che alcuni sono partiti ridendo o pieni di coraggio, diventa insopportabile per il pianto dei neonati strappati alle loro culle, ma non spezza la speranza che quel treno per la prima volta possa non partire che ogni deportazione venga interrotta.
“Abbiamo lasciato il campo cantando, papà e mamma molto forti e calmi, e così Mischa” Etty gettò fuori dal treno questa cartolina postale il giorno in cui lei e la sua famiglia furono deportati, era il 7 settembre 1943.
Etty Hillesum mori a Auschwitz il 30 novembre 1943.

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