Raif Badawi, la libertà d’espressione, le campagne e la solidarietà variabile

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Venerdì, poco prima che Raif Badawi venisse portato sulla pubblica piazza di Gedda, il medico del carcere ha raccomandato che la seconda serie di 50 frustate venisse rinviata. Le ferite della prima serie, eseguita il 9 gennaio, non si erano ancora cicatrizzate. Non è chiaro cosa accadrà nel prossimo futuro per il blogger dell’Arabia Saudita condannato a 10 anni di carcere e a 1000 frustate per aver offeso l’Islam. La Corte suprema del regno pare intenda esaminare il ricorso contro la condanna.

Quello che è chiaro è che senza la mobilitazione mondiale promossa da Amnesty International in decine di capitali di fronte alle rappresentanze diplomatiche saudite (a Roma, anche insieme ad Articolo 21 e alla Federazione nazionale della stampa italiana), quel castigo medievale costituito dalla fustigazione pubblica sarebbe andato avanti e, chissà, Badawi sarebbe prima o poi morto per le continue lacerazioni della sua pelle.

Una mobilitazione partita lentamente, anche a causa dell’emozione mondiale per le vittime del terrorismo di Parigi, ma che poi ha prodotto decine di migliaia di appelli e manifestazioni. A volte, quando una campagna non ha successo, ci si consola dicendo che andava fatta comunque. Il punto che si sottolinea poche volte è che molte campagne hanno successo se sono portate avanti con costanza e coerenza, con credibilità e imparzialità, possibilmente libere dall’interferenza opportunistica di chi abbraccia una causa per mero odio per altro, di chi è Charlie oppure è Raif Badawi più per islamofobia che per un sincero attaccamento al principio della libertà d’espressione.

La campagna per Raif Badawi deve proseguire. Non basta che siano state provvisoriamente sospese le frustate. Il rischio, altrimenti, è che la sua storia finisca dimenticata nell’oblio di una cella, per 10 anni.

P.S. Su questo portale, Enzo Nucci ha ricordato in questi giorni la vicenda di tre altre vittime della violazione della libertà d’espressione: Mohamed Fahmy, Peter Greste e Baher Mohamed, i tre giornalisti di Al Jazeera arrestati il 29 dicembre 2013 e condannati il 23 giugno 2014 a sette anni di carcere, più altri tre anni per Mohamed, colpevole anche di aver raccolto come souvenir la cartuccia di un proiettile. Il 1° gennaio la Corte di cassazione ha chiesto un nuovo processo, ravvisando irregolarità procedurali in quello che aveva emesso il verdetto di colpevolezza. I tre giornalisti però restano in carcere, con la sola possibilità in tempi brevi di una “grazia in nome degli interessi nazionali”.
Fahmy, Greste e Mohamed sono tre prigionieri di coscienza. La loro vicenda non ha suscitato grande attenzione nel nostro paese, forse per la non eccelsa reputazione del canale televisivo per cui lavorano, forse perché si è creduto che l’accusa di aver aiutato la Fratellanza musulmana fosse fondata. Se la grazia tardasse ad arrivare, il giorno in cui inizierà il nuovo processo vogliamo ritrovarci sotto l’Ambasciata egiziana e chiedere la loro scarcerazione?


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