Democrazia extraparlamentare

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Funziona così: ci sono i leader di due delle maggiori forze politiche che si mettono d’accordo su un patto di cui non si sono mai conosciuti i dettagli, forse perché tali dettagli erano e sono il patto medesimo. Questo trattato non noto, di cui gli unici conoscitori e tenutari sono i pattuenti stessi, diviene però il vincolo a cui debbono attenersi scrupolosamente i deputati e i senatori di quei partiti, anch’essi all’oscuro dei contenuti precisi di quanto concordato fra i rispettivi capi.

Il tutto, poi, è condito dalla condizione eccezionale e casuale che vede entrambi i contraenti non sedere nel Parlamento che dovrà tradurre in leggi e atti il loro contratto e cementato dalla motivazione dell’imprescindibilità della sua esecuzione in quanto “non ci sono alternative” e “i cittadini hanno votato per cambiare il Paese”, sebbene da nessuna parte a quelli è stato chiesto il come e in che modo.

Ecco, una cosa simile non saprei chiamarla altrimenti se non “democrazia extraparlamentare”. Nel senso che tutto quello che di significativo e sostanziale avviene è deciso al di fuori delle dinamiche e dei luoghi istituzionali di una democrazia parlamentare: in una stanza di partito, in enti e sedi diverse dalle aule investite della rappresentanza, se non direttamente estranee a quei meccanismi, in imprecisate dinamiche di governo e potere (o addirittura su un blog, visto lo strumento di indirizzo e controllo preferito dal terzo dei responsabili delle più grandi fra le organizzazioni presenti sulla scena politica, anch’esso, incidentalmente, non deputato né senatore), mentre chi siede in Parlamento è chiamato solo a ratificare quelle decisioni già definite, al massimo cercando qualche escamotage per rendere tale approvazione più rapida ed efficace.

La considerazione di questo stato dei fatti non è archiviabile con una semplice scrollata di spalle, soprattutto se si considera che, nelle norme e nel diritto, la definizione e l’individuazione di quei leader non è affatto codificata, e spesso non è del tutto (per nulla?) conforme ai processi e ai dettami della stessa democrazia. In questo modo, il sistema vira pericolosamente verso una sorta di “elitismo plebiscitario”, se mi si passa l’apparente contraddizione, dove la guida dello Stato è affidata attraverso un’identificazione quasi innaturale, un’immedesimazione, fra il popolo e le sue élite, alle quali si concede un esercizio del potere (che sia esso di governo o di opposizione) slegato, ab solutus, da ogni dovere di rappresentanza e mediazione attraverso le dinamiche, appunto, parlamentari.

Sto dicendo che quello che avviene è al di fuori del solco tracciato dalla Carta fondamentale e fondante del nostro assetto democratico? No, non formalmente almeno. Ma nei fatti è tutta un’altra storia.

Il Parlamento è continuamente espropriato delle sue peculiarità e funzioni, attraverso la decretazione invasiva da parte dell’Esecutivo, l’abuso di delega, fino a meccanismi e alambicchi da azzeccagarbugli dei regolamenti dai nomi fantasiosi quali “canguro” o “ghigliottina”. Però, nella forma, il limite costituzionale non viene valicato perché a imporre questo scivolamento sono i parlamentari medesimi, cioè i titolari della rappresentanza: è un’auto-espropriazione, una rinuncia, un’abdicazione sostanziale che però mantiene intatto il rispetto apparente delle regole definite. Fino a quando questo avverrà per libera, volontaria e svincolata scelta degli eletti, o almeno finché non se ne potrà dimostrare il contrario, la rappresentazione formale della democrazia parlamentare sarà salva e garantita.

Il problema, semmai, è un altro: dinanzi a una simile rinuncia dei titolari della rappresentanza a rappresentare le istanze del corpo elettorale, e alla continua pratica dell’esclusiva ratifica delle decisioni del Governo, anche in campi che sarebbero propri dei primi e non del secondo, come la Costituzione, appunto, o la legge elettorale, fino addirittura all’elezione degli organi di garanzia, come evitare che qualcuno si ponga, con sempre maggiore insistenza (e crescenti ragioni, aggiungerei), la domanda “ma allora, a che serve il Parlamento?”.


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