L’insospettabile violenza del parto (istituzionale)

0 0

Quante donne partoriscono senza sapere a cosa effettivamente vanno incontro e quante fanno una scelta precisa quando decidono dove affrontare un momento così importante della propria vita? In Italia sono pochissime, una percentuale quasi irrisoria, perché in fondo fare figli è una cosa che succede al di là del come e tutte le donne che hanno partorito nell’arco della storia dell’umanità sono lì a dimostrare che quello che è importante non è scegliere di partorire in un modo o in un altro ma il risultato: mettere al mondo figli. Malgrado si debba indubbiamente riconoscere il progresso per ciò che riguarda la salvaguardia della salute della donne – almeno in un parte del mondo – quello che oggi ci sorprende se riflettiamo sul momento del parto, è quanto la donna sia messa davvero in condizione di scegliere in maniera consapevole, autodeterminando questo momento e come l’istituzione, cioè un ospedale, salvaguardi o meno questa possibilità. In realtà il parto in un ospedale italiano, anche se si impegna a salvaguardare la salute della donna e del bambino, non si pone in nessun modo questo quesito e dà per scontato che per salvaguardare la vita delle donne e dei bambini, basta mettere una donna su un letto con un travaglio anche di 10 ore con un monitor attaccato alla pancia per vedere che fa il nascituro. I racconti di un parto sono spesso allucinanti: dolori indescrivibili che durano per un tempo infinito (anche venti ore) con l’impossibilità di muoversi e che in maniera inequivocabile somiglia più a una tortura che a un atto “naturale” per mettere al mondo qualcuno. Ma si potrebbe fare diversamente? Ce lo hanno spiegato sabato scorso a Roma, alla Casa internazionale delle donne, chi di questo si occupa a tempo pieno. E un’idea di cosa significhi la violenza del parto istituzionale che l’ha data in maniera esaustiva – in un’intervista su NoiDonne (“Partorire senza violenza. I diritti delle donne si fermano sulla soglia dell’ospedale”) – la stessa Gabriella Pacini, ostetrica e presidente di Freedom For Birth Rome Action Group, coordinatrice dell’evento alla Casa internazionale.

Sono ostetrica dal 1997 e quando ho iniziato ad assistere i parti, nel grande policlinico romano dove studiavo, appena una donna arrivava in travaglio le facevamo subito la depilazione e il clistere, non le permettevamo di avere nessuno accanto durante il travaglio e il parto, non le permettevamo di alzarsi e muoversi liberamente o scegliere una posizione per il parto – magari accovacciata, per aiutarsi con la forza di gravità –  ma la costringevamo a stare sdraiata sulla schiena in una posizione senz’altro più faticosa e dolorosa per lei. Non le lasciavamo neanche bere un po’ d’acqua, ma le mettevamo una flebo per idratarla. Non poteva andare al bagno ma portavamo noi una padella. Il più delle volte dilatavamo il collo dell’utero con le dita, una pratica molto dolorosa e anche dannosa.  Al parto poi le gambe venivano legate al lettino, all’altezza delle cosce, con delle cinte di cuoio e, con una potente spinta sulla pancia e un ampio taglio alla vagina, tra le urla della madre, la creatura finalmente nasceva. Se invece queste pratiche non funzionavano – e capitava spesso che una donna sottoposta a quel supplizio non riuscisse a partorire – allora si andava di là in sala operatoria e le veniva praticato un taglio cesareo.

A prescindere dal tipo di parto comunque madre e bambina/o venivano  immediatamente separati e per i genitori non era possibile vedere il bambino se non ad orari decisi dall’ospedale. Le donne che facevano il taglio cesareo in particolare soffrivano molto di questo, perché nessuno portava loro la creatura e, quasi sempre finiva che vedevano il bambino per la prima volta dopo 3 lunghissimi giorni, semplicemente perché il nido era al piano di sotto e da sole non riuscivano a scendere dopo l’operazione.

Tutte queste pratiche che ho descritto sono molto dolorose e, se praticate di routine senza una precisa indicazione,  sono anche dannose per la salute di madre e persona che nasce. Alcune, come legare le gambe, sono diventate molto rare anche se non sono completamente scomparse e oggi le donne possono, in moltissimi ospedali, avere una persona con se durante il travaglio e il parto. Ma tante altre pratiche, come ad esempio la posizione del parto, rottura del sacco amniotico, la separazione dal bambino/a che viene portato al nido immediatamente dopo la nascita, e il taglio alla vagina (episiotomia), sono ancora molto comuni nella maggior parte degli ospedali. Siamo riuscite a vedere riconosciuti molti nostri diritti e la condizione delle donne è molto cambiata negli ultimi 40 anni.  Ad esempio il nostro diritto alla contraccezione – con la riforma del diritto di famiglia, dopo i referendum su divorzio e aborto e l’abrogazione degli articoli che prevedevano attenuanti per il “delitto d’onore” – rappresenta una conquista indiscussa. Un altra data importante è 1978, l’anno in cui le donne hanno affermato anche sul piano legislativo il diritto ad interrompere la gravidanza: un fondamentale riconoscimento del diritto alla libertà di scelta e autodeterminazione, di poter scegliere e decidere sul proprio corpo e affrancarsi finalmente dal destino biologico di una maternità non desiderata che ha oppresso generazioni di donne.

Centinaia di migliaia di  donne sono morte per aborti clandestini prima di veder riconosciuto questo diritto. Ma ancora oggi la stessa libertà non è riconosciuta nel parto.

Faccio parte dell’associazione Vitadidonna da 12 anni e se una donna vuole abortire posso indicarle un ospedale dove può farlo secondo il suo sentire: se con il metodo chirurgico o farmacologico, se con anestesia locale o generale. Ci sono ancora grandi difficoltà ma posso aiutarla a scegliere. Ma se una donna mi chiede in quale ospedale può partorire scegliendo la posizione del parto e avendo la persona che nasce con sé – due semplici, elementari richieste, che non richiedono nessuna particolare attrezzatura da parte dell’ospedale – purtroppo devo ammettere che non esiste ancora a Roma un solo ospedale in cui possa vedere riconosciuti questi suoi diritti contemporaneamente.

Le spiegherò che gli ospedali non seguono le raccomandazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, che raccomandano l’appropriatezza della medicalizzazione e non l’abuso, ma degli obsoleti protocolli interni che non hanno nessuna motivazione medica, e originano da arcaiche pratiche di controllo e disciplinamento del corpo. Le dirò che potrà scegliere la posizione del parto solo se l’ostetrica e in particolare il medico ritengano legittimo questo suo diritto e se, al contrario, pensano che lei debba sottostare a delle prassi e consuetudini (rituali appunto) che non hanno nessuna motivazione medica ma rappresentano un puro esercizio di potere, allora sarà obbligata a salire sul lettino. E che potrà avere il bambino con se solo se la policy dell’ospedale lo considera opportuno, a prescindere dai suoi desideri o condizioni di salute.

In 17 anni che assisto le donne al parto ho imparato alcune cose: ho imparato che sono le donne che partoriscono e non noi che “le facciamo partorire”. Ho imparato che se cerco di capire quali sono i bisogni della donna durante il travaglio e il parto e cerco, quando posso, di assecondarli, il parto è più facile, meno doloroso, e più sicuro per la salute della madre e persona che nasce.  Ma ho anche imparato che malgrado nella nostra Costituzione l’art. 32 riconosca alle persone il diritto di scegliere  e ribadisca come non si possa obbligare nessuno a un trattamento sanitario questo diritto, di fatto, non è riconosciuto alle donne durante il travaglio e il parto. E che, di fatto, le donne vengono oppresse e intimorite con l’artificioso espediente che vuole il parto sempre potenzialmente pericoloso e che tutto questo viene fatto per il bene del bambino.

E ho imparato che le donne ricevono trattamenti sanitari senza che loro possano dare o rifiutare il consenso (vedi episiotomia) e che, di fatto, passano necessariamente attraverso un percorso obbligato. Infatti durante il travaglio e il parto può diventare molto difficile per una donna far valere il proprio diritto alla scelta e autodeterminazione. Servirebbe un Basaglia anche per le donne nel parto: abbiamo riconosciuto alle persone con problemi mentali il diritto di parlare e decidere della loro salute e ancora non è possibile quando si parla di donne a termine di gravidanza. Con questo evento, che coinvolge solo alcuni operatori sanitari, ma sopratutto altre figure, vogliamo cercare di fare un pò di luce sul perché di questi “rituali”, perché non avendo nessun significato razionale, appunto di rituali si tratta.

Non credo nel bisogno dell’operatore sanitario, medico o ostetrica, di affermare un suo potere possa rappresentare la reale motivazione o possa, da sola, giustificare quanto accade. Proprio per indagare le motivazioni all’origine di questa condizione, all’evento della Casa Internazionale delle Donne, è stato fondamentale coinvolgere bioeticisti, storiche, antropologhe, psicologhe e femministe che possano aiutarci a far luce  su quelle che sono le ragioni di questo controllo e abuso, che probabilmente ha radici profonde e  riguarda in prima istanza il modello patriarcale da cui proveniamo. Dobbiamo chiederci come viene percepito e normato nella nostra cultura e società ilcorpo  della donna per poter comprendere la posizione della donna nel parto. Le donne stanno in sala parto così come vengono considerate nella società.

Ci sarà tra gli altri, relatori anche un antropologa che ci racconterà come in modo molto simile accade la stessa cosa nei parti a casa Bali, da dove è appena tornata. La cosa non mi sorprende affatto: la mistica del “parto naturale” che permetterebbe una maggior espressione della soggettività della donna nelle società a bassa tecnologia non è confermata dagli studi ma al contrario sappiamo che praticamente in tutte le società il parto viene normato e controllato attraverso differenti rituali. Nella nostra società, in questo momento storico, questo ruolo di disciplinamento e controllo è assunto dalla tecnologia e  medicalizzazione, che però non rappresenta la causa ma solo lo strumento attraverso il quale noi priviamo le donne del loro potere generativo perché appartiene solo alle donne lo straordinario potere di trasformare un semplice materiale genetico in nuove persone.

Dunque non è tornando alla natura che cambierà qualcosa, ma perderemmo solo i vantaggi che il progresso scientifico ci ha dato. La strada è un altra e per fare chiarezza ci vuole l’aiuto e il contributo di tutte e tutti.


Iscriviti alla Newsletter di Articolo21