Continua la saga del caso Loris sulle madri cattive che uccidono: e i padri?

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Continua la vivisezione mediatica su Veronica Panarello che ormai è diventato l’argomento principe di tutti i programmi d’informazione e i talk show televisivi nonché di pagine e pagine di giornali che ormai scrivono anche quando qualcuno starnutisce. La madre di Loris – il bambino di 8 anni ucciso il 29 novembre a Santa Croce Camerina – è al momento l’unica indiziata per l’omicidio del figlio, e anche se continua a dichiararsi innocente, ormai il processo pubblico è stato fatto. Da poco trasferita dal carcere di Catania a quello di Agrigento, la signora Pannarello ormai la conosciamo tutti: il suo viso, il fatto che si è tinta i capelli varie volte, sappiamo del suo passato più di quanto non sappiamo delle persone a noi vicine, e soprattutto abbiamo l’idea chiara che sia, come ha scritto il gip: “una madre di indole malvagia”, “cinica” e con “volontà di far soffrire”, “un’indole violenta”, “incapace di controllare gli impulsi omicidi”. Un profilo che oltre a essere una condanna, e qualora anche fosse lei l’assassina, è più un giudizio morale e sembra più scritto da un tribunale dell’inquisizione che da un giudice per le indagini preliminari. E su questo filone che sostiene una cultura che non solo stigmatizza ma demonizza una madre infanticida in quanto “malvagia”, e non solo possibile autrice di un crimine gravissimo, c’è tutto il circolo mediatico italiano che nella maggior parte si mette in moto creando un enorme fiction a puntate per inchiodare spettatori e spettatrici a una gogna pubblica e sottoponendo a tortura mediatica la strega di turno, indegna anche di un trattamento da persona (eventualmente anche rea) che vive nel XXI secolo. Perché non esistono diritti per una strega, una donna che ormai, anche con un processo ancora tutto da svolgere, non gode già più di nessun diritto, neanche quelli concessi a un criminale.

Un sostegno mediatico capace di fare a pezzi simbolicamente e materialmente una persona nel momento in cui decide che di quel corpo di madre degenere potrà farne un uso lucroso, alzando lo share (e quindi guadagno) grazie a novelli roghi costruiti sulla piazza mediatica che hanno come spettatori e spettatrici milioni di persone pronte a nutrirsi dei pezzi di quel corpo reietto e malvagio: come se la condanna simbolica di quella strega fosse così introiettata da non poter essere messa neanche in discussione anche se, per il momento, la fase del giudizio è ancora preliminare.

Un banchetto cannibalico che ogni giorno si consuma puntuale: dal particolare del cuscino di rose della madre di Loris che non è stato fatto entrare in chiesa durante il funerale del piccolo (che notizia), alla sensitiva che avrebbe dato “una mano importante agli inquirenti” dichiarando che “Veronica sarebbe la responsabile dell’uccisione di Loris” (un vero scoop).

Un banchetto che diventa splatter quando tv e stampa rimescolano nel torbido di conflittualità familiari già presenti prima dell’omicidio rilanciando anche “news interessanti sull’inquietante ritratto di Veronica” da parte della “sorella Antonella la quale ha scelto il settimanale Giallo per lanciare un appello alla madre del piccolo ucciso, incitandola a parlare ed a dire tutta la verità”; o come il fuori onda in cui Alessandra Borgia, inviata di Barbara D’Urso sul caso di Loris (Pomeriggio Cinque), si accorda con il cameraman per far apparire il più naturale possibile l’incontro spacciato come casuale con il cacciatore Orazio Fidone che ha trovato il corpo del bambino.

Come già detto altrove, è chiaro quindi che lo stereotipo della madre che per forza deve rientrare nel modello di mamma “buona e accudente” senza macchia né imperfezioni, impone la mannaia del boia che deve fare a pezzi chi trasgredisce l’ordine simbolico (maschile) costituito, come fosse la condanna esemplare di una moderna strega che non trova scampo prima della sua reale ed eventuale condanna in sede di giudizio, come la legge ci spaccia che sia. Un trattamento che dimostra come alla base ci sia una disparità basata sul genere comprovata dal fatto che malgrado i padri che uccidono i propri figli siano in un numero nettamente maggiore, la resa mediatica è diversa, e anche se la speculazione e la morbosità è simile, i ruoli si ribaltano perché un padre ha sempre delle ragioni quando commette un atto criminoso anche grave – e se non ce l’ha è un raptus senza giudizi morali – e per lui non c’è nessun rogo mediatico (quelli sono solo per le streghe). In fondo la tragedia è quella che racconta di Medea e non di Saturno che divorava i propri figli, quella è cosmogonia, cioè la naturale creazione del mondo.

Eppure nel giro di pochi anni sono stati numerosi, solo in Italia, i casi di femmicidio con figli uccisi per vendicarsi della moglie o della ex compagna. Primo tra tutti l’infanticidio del piccolo Claudio, buttato giù da Ponte Garibaldi dal padre alle 6 del mattino per vendicarsi della compagna da tempo vittima di violenza domestica, un caso che sebbene abbia destato sdegno generale non ha creato lo stesso enorme carrozzone mediatico messo su per Veronica o il caso di Cogne – che è durato anni con presenza mediatica costante e sistematica. Così è successo anche sulla morte della ragazzina di 12 anni uccisa nel sonno ad agosto dal padre, Roberto Russo, che con un coltello da cucina ha ucciso la figlia minore, cercando di ammazzare anche la maggiore di 14 anni ferita gravemente: un atto che è stato spiegato a causa di una “crisi matrimoniale con la moglie, che lo aveva lasciato alcuni giorni fa” e che l’uomo non ha retto cercando così di vendicarsi uccidendo le figlie. Un caso che pochi ricordano ma che è successo pochi mesi fa vicino Catania a San Giovanni la Punta e su cui le indagine si sono svolte “con il massimo riservo”.

Ma ce ne sono altri. Sempre quest’anno a Treviso un agricoltore 62enne, Sisto De Martin, ha ucciso la moglie Teresa Reposon di 56 anni e il figlio Cristian di 20 anni: fracassando la testa a lei e tagliando la gola a lui. A Pescara Massimo Maravalle di 47 anni, che ha soffocato il piccolo Maxim di 5 anni tappando con una mano il naso e con l’altra la bocca, è stato prosciolto un mese fa per problemi psichiatrici e dichiarato dalla perizia incapace “di intendere e di volere in maniera assoluta”: “un uomo angosciato, distrutto”, descritto come un “genitore affettuosissimo” che si è reso conto di quello che ha fatto – malgrado i problemi psichiatrici – e su cui è emerso che in realtà avesse intenzione di uccidere anche la moglie.

I primi di novembre, in Umbria, un uomo di 44 anni, Mustafà Hajjaji, ha ucciso i figli – Ahmed di 8 anni e la sorellina Jiahane di 12 anni – sgozzandoli e lasciando sui muri scritte fatte con il sangue, per vendetta contro la moglie che lo aveva lasciato. Mentre su Gianpiero Mele, il 28enne che ha ucciso il figlio Stefano di due anni nel 2010 e per questo condannato a 30 anni, ora la Cassazione dispone un nuovo processo. L’uomo, descritto dalla stampa come “un ragazzo modello dalla faccia pulita”, “conosciuto nel suo paese per il suo carattere socievole, per l’impegno dimostrato da sempre nello studio e nella vita” che però “quel maledetto giorno” ha ucciso il figlio lasciando una lettera “in cui traspare l’odio e la rabbia verso la compagna”, un uomo quindi che si è vendicato della moglie uccidendo il figlio piccolo. Un uomo, Giampiero Mele, “che dopo aver acquistato della corda in un negozio di ferramenta vicino alla sua casa al mare, fece un cappio, legò il figlioletto ad una porta e cercò di impiccarlo. Poi, per alleviarne le sofferenze, impugnò un taglierino (acquistato nella stessa ferramenta) e gli tagliò la gola”: particolari di un omicidio che i giornali hanno spiegato come “dettato dalla gelosia e dalla paura di essere abbandonato dalla propria compagna”. A Caltanissetta Maurizio Gisabella, un padre separato, ha soffocato i figli – la piccola Gaia di due anni e il fratello Carmelo di 10 – lasciando una lettera alla moglie con scritto “Spero che proverai rimorso”: una lettera descritta dai media come “straziante” e che l’uomo avrebbe redatto prima di uccidere i figli e di buttarsi dal sesto piano per chiarire la sua vendetta contro la ex moglie.

E che dire infine del caso di Motta Visconti in cui un padre, Carlo Lissi, si è sbarazzato dell’intera famiglia considerata come un peso? L’uomo ha ucciso la moglie Cristina Omes di 38 anni e i figli Giulia di 5 e il piccolo Gabriele di 20 mesi, nella villetta vicino Milano uccidendo tutti a coltellate. Un femmicido con doppio infanticidio deciso a tavolino che l’uomo ha cercato di nascondere fino alla fine e su cui anche se i media hanno speculato, lo hanno fatto viaggiando su stereotipi completamente diversi rispetto a quello della mamma di Loris: un caso clamoroso di un padre che stermina tutta la famiglia perché invaghito di un’altra donna, dopo il quale nessuno però ha ricostruito le storie di tutti i padri che negli ultimi 30 anni hanno ucciso i propri figli, come si è fatto adesso dopo la morte di Loris su diverse testate anche di un certo peso.

Ad Ancona Luca Giustini ha ucciso a coltellate la figlia di 18 mesi nel lettino ma nessun gip ha parlato di “indole malvagia e crudeltà”, e anzi si è parlato subito e solo di raptus e di una follia di un momento – escluso subito per Veronica Panarello – aggiungendo che l’uomo era stressato negli ultimi tempi, come riportato dai vicini, mentre altri “hanno parlato di un rapporto di coppia in crisi”, o di “un momento di furore per un pianto prolungato”. Elementi di narrazione che preparano il terreno alle attenuanti che saranno poi sicuramente dibattute in tribunale.

Ma allora perché se una donna uccide lo fa in quanto “femmina cattiva o malvagia” mentre se a uccidere è un uomo, anche in maniera cruenta e con movente di vendetta verso la donna, allora è solo un momento di follia, o per stress o per sbaglio?

Quale peggior stereotipo – portato al suo estremo – è quello che condanna le madri al rogo e concede attenuanti ai padri che sopprimo i propri figli per vendetta contro le donne, se non la cultura che poggia sull’esercizio di un potere maschile che ha alla base il fatto naturale che l’uomo possa disporre della propria famiglia – madri e figli compresi – in quantopater familias? La patria potestà del maschio come supremo ordine delle cose, esiste ed è ancora viva e profondamente radicata nella mentalità comune ed è per questo che non ci si rende conto di quanto queste narrazioni siano sbilanciate in quanto specchio di questa struttura patriarcale. Chi comanda a casa è ancora il maschio e quello che succede dietro le mura di casa è un fatto privato dove l’uomo può esercitare il suo potere naturalmente e fino alle estreme conseguenze: come per l’incesto così anche per l’infanticidio.

Fonte: http://bettirossa.com/


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