Sinistra immaginaria

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Difficile dire sinistra. Anche la parola è segnata dalla crisi dei suoi significati. “Dio è morto”. Del resto, sempre più la coppia dialettica che l’ha accompagnata, vale a dire riforma e/o rivoluzione, è parte di una guerriglia semiologica. Per cui è avvenuto uno slittamento di senso: la riforma è piuttosto sinonimo di ribaltamento delle conquiste del Novecento; rivoluzione un evento di rottura nelle tecniche o nei costumi. Del resto, quando la lingua diviene uno dei territori della rivoluzione passiva, il quadro assume sembianze più chiare. Non è bianco o nero, ma il dato degli ultimi trent’anni ha via via assunto le valenze del travestimento. Nella gergalità corrente “riforma” del mercato del lavoro è la modifica peggiorativa dello Statuto dei lavoratori, o rinvia alla conquista dello “scalpo” dell’articolo 18.

Rottura epistemologica -per dirla, con una malinconica cover-  con Althusser. Inoltre, il tempo digitale, le culture della e nella rete hanno mutato nel profondo i riferimenti cognitivi, già ampiamente messi in discussione dalla metamorfosi della globalizzazione degli anni Settanta/Ottanta del secolo scorso. Insomma, la scarsa o limitata lettura dei fenomeni in atto ha reso labile il necessario principio di realtà, senza il quale nessuna sinistra potrà mai esistere davvero: se non come (ormai) patetica testimonianza. Ciò non significa, ovviamente, confondere la lettura dei fenomeni con l’innamoramento altrettanto patetico per il nuovismo, che ha fatto breccia nei mondi progressisti. Anzi. Si potrebbe persino evocare la celebrata polarità “apocalittici-integrati” di Eco, per sintetizzare le rive contrapposte che hanno sempre segnato il dibattito identitario: schermaglia nobile fintanto che regnava l’ideologia, scaduta in troppi opportunismi manichei nell’era “postuma”. Ora, sembra scavata una fossa: da una parte un partito democratico difficilmente ascrivibile alla storia delle sinistre ( va detto senza fariseismi), dall’altra –dopo la bella esperienza di Sinistra, ecologia e libertà- uno spezzatino che va dalla nostalgia all’abbraccio con il neopopulimo. Ottimo il libro “La diaspora” di Alessandro Gilioli (Imprimatur, Reggio Emilia, 2014), per l’accurata rassegna della decadenza. Intendiamoci. Dobbiamo arrenderci alle semplificazioni del neo-populismo o a una destra-sinistra vagamente tecnocratica? Già. Che fare? Ma è giusto iniziare dall’interrogativo classico della sintesi leniniana? Non è meglio cominciare, invece, con la domanda su che e come “pensare”? O “ Perché, da chi, come”, secondo le indicazioni dello storico volume di Jean Fallot, “Marx e la questione delle macchine” (La Nuova Italia, Firenze, 1971). Vale a dire partire dalle domande, prima ancora che dalle risposte. E sì, perché senza un profondo bagno di realismo non si va lontano. Ancora con più nettezza. Non solo le idee di sinistra richiedono profonde riconsiderazioni, bensì è la stessa idea di  una sinistra a interpellarci su un cambio di pelle e di registro cognitivo. Una sinistra capace di interagire -pur criticamente- con il  tempo dell’attualità deve innanzitutto ricostruire gli scaffali dei suoi saperi, trovando l’istmo giusto dentro il quale pensare e rimettersi in sesto. Prima della traversata in mare aperto e senza conoscere la nuova cartografia del mappamondo, il cui baricentro si è spostato altrove: verso l’Oriente (medio e lontano), l’America latina, l’Africa.

Vi sono alcuni punti chiave che non è lecito rimuovere. Il Novecento è trascorso e la fabbrica fordista è, almeno parzialmente, scomparsa. L’organizzazione sociale è insieme povera e complessa, liquida, come si è detto e scritto  autorevolmente. La citata mediatizzazione totale (i mass media, non la rete, meritevole quest’ultima di una diagnosi ben diversa ed articolata), implosa nell’epoca della velocissima riproducibilità digitale, ha come banalizzato la società dell’informazione –così valorizzata dalla conferenza europea di Lisbona nel 2000- scindendola dalla società della conoscenza. Nel senso che la ricchezza cognitiva si è rivelata assai inferiore all’ “over information”. Simile contraddizione, mai adeguatamente indagata, è diventata abnorme nei riguardi dei “nativi digitali”: le generazioni immediatamente coinvolte e sussunte dalle e nelle culture post-analogiche, cui le agenzie formative ufficiali hanno spesso raccontato ben poco della storia precedente. Qui dentro sta una delle principali aporie della sinistra, non per caso divisa e sconfitta. Tante chiacchiere nuoviste, ma ben poca innovazione reale. Ha continuato a parlare un latinorum un po’ storpiato, senza riuscire a declinare la lingua in uso.

Il linguaggio è sempre un epifenomeno di un processo generale, disvelando l’arretratezza di riti e costumi di un mondo divenuto a sua volta un ceto chiuso senza élite. Per non dire dell’infatuazione televisiva, vissuta senza l’umiltà di studiare il funzionamento della macchina dell’immaginario. Fino ad esserne travolti. E senza la determinazione di introdurre nell’ordinamento una legislazione adeguata, in primis il conflitto di interessi, l’antitrust e la riforma della Rai. In verità, il territorio prescelto o subito è stato quello arato dal berlusconismo, sottocultura di massa potente e prepotente. Prima e dopo, oltre il Cavaliere politico. Il “patto del Nazareno” tra il segretario-presidente Renzi e Berlusconi non è una improvvisa patologia, bensì una sequenza di un universo sostanzialmente condiviso. Un’altra –dolorosa- sequenza fu la rivoltante vicenda dei “101” (erano almeno 130), che tradirono Romano Prodi, l’anticipazione sgradevole della linea delle larghe intese.

Tutto ciò non è una malattia curabile con qualche medicamento. Siamo nei pressi, piuttosto, di un profondo mutamento della posizione della Politica nella gerarchia dei poteri. Invadente, ma impotente, il ruolo effettivo che è in grado di svolgere è precipitato clamorosamente. Altrove avvengono le scelte importanti, diverse sono le fisiologie della costruzione dei gruppi dirigenti. L’incapacità di sottrarsi ai condizionamenti europei ha ragioni profonde e non facilmente aggirabili. Del resto, l’attacco alla “casta”, certamente comprensibile nella degenerazione italiana, si è espanso a dismisura a causa dell’assenza di qualsiasi replica efficace e non difensiva. Ad esempio, sancendo una distanza netta tra lo Stato e il Partito, argomento affrontato con lucidità da Fabrizio Barca nel documento che propose alla discussione più di un anno fa. Questo e altri elementi non vanno rimossi. Ci sarà pure un motivo per cui Matteo Renzi ha stravinto, senza trovare efficaci resistenze. E il voto europeo (quel 40,8%) ci interroga sul chi siamo, prima di indicarci il proverbiale che fare. Guai alle rimozioni. La sconfitta non nasce da qualche primaria del partito democratico: anche, certo.  Senza dubbio,però,  il crollo degli equilibri precedenti ha evidenziato il limite interno del vecchio centrosinistra, la debolezza e gli errori dei gruppi dirigenti che vengono dalla svolta del 1989, gestita in maniera frettolosa e senza la piena consapevolezza del dramma. La lezione di Enrico Berlinguer –al di là delle celebrazioni di maniera- è stata messa in soffitta. E pure quella di Togliatti, benché di un’altra era.

Lo scenario globale e mediatico ha reso ormai improponibile, nel contesto della crisi del Politico, l’andamento lento della vecchia “gauche”. L’approccio liberista nelle linee economiche ha fatto breccia nell’azione concreta del partito democratico e, più complessivamente, ha egemonizzato approcci e criteri di analisi. Fino a trasformare la stessa trincea oppositiva in un dover essere semplificato e talvolta primitivo. Chi vince plasma spesso anche le sembianze del suo oppositore e ne rende subalterna la dimensione concreta. Al riguardo, vi sono spunti assai condivisibili nella bella ed efficace relazione introduttiva di Nichi Vendola al 2° congresso nazionale di Sinistra, Ecologia e libertà del gennaio 2014: “….La sconfitta perdura, è come uno smottamento permanente, ogni giorno semina i suoi veleni. Il fondamento di questa sconfitta lunga è culturale….”; “…dopo le elezioni per il nuovo Parlamento il sistema politico poteva imboccare strade diverse: ha scelto la peggiore, la più politicamente spregiudicata, la più socialmente iniqua, e cioè la strada dell’intesa con l’avversario…..”. L’interpretazione forse di maggior rilievo del fenomeno dell’odierna rivoluzione passiva fu data dalla profonda e amarissima relazione svolta da Lucio Magri  al seminario del Pdup (partito di unità democratica per il comunismo) di Bellaria nel 1977. Fino ad affermare che “…Il capitale, per sopravvivere oltre il limite della sua funzione storica, piega ‘le forze produttive’ alle proprie leggi, forma ‘bisogni non naturali’ secondo la sua ideologia, colloca il ‘lavoro non più necessario’ in un ruolo parassitario e se ne fa la base di consenso. ‘Spezza insomma il rapporto tra maturità della rivoluzione e maturità del soggetto che dovrebbe compierla. Produce la propria putrefazione e quella del corpo sociale, non il proprio becchino né i materiali adeguati alla sepoltura’……”( a cura di Luciana Castellina, Famiano Crucianelli, Aldo Garzia, “Alla ricerca di un altro comunismo”, il Saggiatore, Milano, 2012, p.236). Così attuale la riflessione di Magri. Il becchino ha perso la propria soggettività antagonista e il ciclo produttivo post-fordista ha favorito la crescita di gruppi di  (para) lavoratori atomizzati, instabili e dispersi, eufemisticamente chiamati dalla sociologia contemporanea “Knowledge workers”, essendo il frutto della società della conoscenza. Il “Quinto Stato”, di cui ha parlato nei suoi scritti Carlo Formenti (da ultimo in “Utopie letali”, Jaca Book, Milano, 2013). E’ il tema drammatico della precarizzazione, diventato il capitolo cruciale della vita presente, transitato da perimetro della caduta dell’occupazione a cornice esistenziale dell’inizio di Millennio. La crisi, come nei film di Antonioni, è il sottofondo, la caratteristica saliente di questo tempo: non solo nell’economia, bensì nella stessa organizzazione sociale; nonché nel tessuto etico della società, oltre che nell’eutanasia della politica.

La crisi coinvolge da vicino l’intero campo dell’universo istituzionale, come ha dimostrato la discussione sul Senato. Il merito è stato sopravanzato dal contesto e  dall’intreccio perverso con la legge elettorale, configurandosi –come ben ha sottolineato “il Fatto Quotidiano”- un obiettivo ridimensionamento della democrazia parlamentare, verso un decisionismo accentrato privo di contrappesi e bilanciamenti. Tra l’altro, è risibile il raffronto con l’ipotesi dei primi anni ottanta del “Senato delle Regioni”. In quella stagione era ancora viva l’idea regionalistica dell’assetto statuale, speranza del movimento progressista. Ora, dopo l’infausta esperienza della revisione del Titolo V° della Costituzione del 2000/2001, è in atto un brusco ritorno indietro, in cui la “riformetta” del Senato appare gracile, in controtendenza, puro simulacro di un esibito pugno di ferro del governo Renzi. Ma non è solo la vicenda del bicameralismo a preoccupare. C’è ben altro. Il continuo ricorso ai voti di fiducia, la normalità della decretazione di urgenza, il tentativo di indebolire l’autonomia della magistratura, il permanere dello status quo berlusconiano nei media compongono un quadro che  –mutatis mutandis-  studiosi come Colin Crouch e Pierre Rosanvallon chiamano “post-democrazia”. E adesso è il turno delle organizzazioni sindacali, vittime designate del prossimo girone dell’offensiva, a meno che proprio da lì emerga una reazione imprevista.

Il percorso si fa accidentato, ma è pieno di verità. C’è un nesso che unisce (non omologa, per carità) Berlusconi, Renzi e Grillo. Le differenze tra i tre leader sono evidenti e guai a banalizzare per il gusto dell’iperbole. Tuttavia, il legame sta proprio nel fatto che i livelli intermedi della sfera pubblica sono divelti o molto indeboliti, sostituiti dalla comunicazione tra l’Uno e la Moltitudine. Il discorso politico perde ogni peculiarità argomentativa e riflessiva, per assumere le sembianze dure e pure del marketing. In Berlusconi prevale il tratto demagogico conservatore-reazionario, in Renzi la ricerca del minimo comune denominatore centrale-centrista, in Grillo la rabbia popolar-populista. Ancorché nel movimento 5Stelle si ritrovino sentimenti e obiettivi con i quali ogni analisi di sinistra deve, dovrà fare i conti, evitando mal riposti anatemi di un’aristrocrazia in declino.

Il cambiamento dello scenario impone di abbandonare il copione consueto. Si riprenda il riferimento alla situazione internazionale, diventata purtroppo marginale nel dibattito pubblico italiano, provinciale e periferico. Mentre il tema della pace e della guerra (il rischio concreto di una Terza Guerra Mondiale diffusa, di cui ha detto con parole fortissime Papa Francesco) è dirompente, a partire dallo scenario del Medio Oriente o da quello dell’Ucraina. Il dramma iracheno sottolinea l’assurdità dell’intervento militare anglo-americano e ripropone –tra l’altro- l’incongruenza delle missioni militari all’estero. Come è riesplosa la questione palestinese, accuratamente occultata da anni.
Mutare la sceneggiatura significa rovesciare l’ordine degli addendi: in luogo di interrogarsi su quale partito potrà interpretare proposte e obiettivi “di sinistra”, è bene partire proprio da questi ultimi. La sinistra è innanzitutto un’idea, da sostanziare con  programmi e scelte culturali, discrimanti di valore. Non è un partito o una somma di partiti, o un’aggregazione di movimenti. La militanza politica ha oggi luoghi variegati in cui cerca di esprimersi. O non ne ha per nulla. L’astensionismo e il non-voto sono il convitato di pietra di ogni discussione. Bene ha fatto Pippo Civati a proporre -nel “PolitiCamp” tenutosi a Livorno nel luglio scorso-  un “portatessere”, per dare il senso del rispetto della pluralità delle opinioni e delle fonti dell’impegno. Alla presenza di Gianni Cuperlo e di Nichi Vendola è stata lanciata l’associazione “è possibile”, ai confini del partito democratico. Le aree di confine sono utili per esplorare ciò che non si vede dalle cittadelle consolidate. Ricerca rabdomantica delle scintille dell’innovazione: è il manifesto di una sinistra che si voglia davvero rete e non bardatura autoreferenziale. Ecco, la rete. Senza enfasi o determinismi tecnologici, proprio la logica di Internet ci ammonisce sulle modalità ri-costruttive di un filo politico, che ha bisogno di partire dal dialogo tra e con le  associazioni che già operano. A partire dall’”Associazione per il rinnovamento della sinistra”. O dalla “Rete dei socialisti”.

Lavoro e politica economica alternativa, riconversione ecologica della produzione, diffusione dei saperi, difesa attiva della Costituzione come ci ricorda Stefano Rodotà con Maurizio Landini, lotta per la pace, accesso libero alla rete e all’informazione, tutela e rilancio dei beni paesaggistici e culturali: sono alcuni dei punti di un progetto su cui rimescolare esperienze e soggettività. Il referendum abrogativo del “fiscal compact” è un’occasione importante, come lo furono le scadenze sul nucleare e sull’acqua pubblica. Le richieste del governo a Bruxelles di rinviare, rinviare sono la plateale dimostrazione dell’assurdità di quei voti parlamentari nella passata legislatura: eccessi di zelo, neppure richiesti. Un’alternativa economica si fonda sul rovesciamento della soggezione al mercato e al privato. E’ la tesi chiara e convincente di Mariana Mazzucato ne “Lo Stato innovatore” (ed. Laterza, Roma-Bari, 2014). E’ lo Stato ad essere il motore della trasformazione, sempre che sia adeguatamente rivisto e ripensato. Proprio la decantata new economy, si dimostra con precisione, in tanto decollò, in quanto ebbe il supporto dello Stato. Solo la mano pubblica, depurata da clientele e assistenzialismi, è in grado di incidere sulla e nella crisi. L’intervento pubblico è, naturalmente, da riscrivere, sovvertendo radicalmente l’ordine del discorso liberista. Sempre la Mazzucato chiarisce l’essenza moderna e non difensiva (al di là, dunque, della mera tutela) dello Stato: “…..Lo Stato non elimina il rischio (dei fallimenti del mercato, ndr), come se avesse una bacchetta magica: si assume il rischio, plasmando e creando nuovi mercati….” (p.16, op.cit.).  E le risorse, chi paga? Serve una risoluta tassazione sui patrimoni dei veri ricchi, insieme ad una lotta senza quartiere all’evasione fiscale e alla corruzione.  E i beni comuni sono la prospettiva di un’utopia positiva, praticabile già oggi come punto di vista, criterio valutativo. Tra l’altro, la straordinaria esperienza del Teatro Valle di Roma si è avviata verso una soluzione inedita, centrata sul riconoscimento della lunga vertenza da parte del Comune di Roma e del Teatro Argentina, lo Stabile della Capitale: i beni comuni dalla teoria alla prassi. Un passo avanti. La mobilitazione sul referendum per l’acqua pubblica fu un momento altissimo di ripresa, come lo furono le manifestazioni per la Costituzione e –tornando indietro- il Circo Massimo a Roma straripante di lavoratrici e lavoratori proprio sull’articolo 18,  o il biennio dell’Ulivo ‘96/’98. Ed entri in scena come fonte costituente Il pensiero delle donne, un punto di vista sulle cose di ben altra ricchezza rispetto al modello maschile, di cui l’utilizzo disgraziato del corpo femminile è il “mostro” sì, ma che alberga nella normalità. Riferimenti per la ri-costruzione. Senza scorciatoie o improvvisate ricerche del tempo perduto. E’, innanzitutto, la scelta di uno stile, di un approccio: la sconfitta è culturale, prima che politica. Un’eventuale ripresa passa e passerà per una cultura politica. E il ricambio generazionale non è un brand pubblicitario: è lotta tra idee e  visioni alternative.
Ci vorranno tenacia e pazienza. Il capitale è lungo, prendetevi del tempo, diceva Mao Tse-Tung….

* numero di maggio-agosto della rivista “Critica Marxista”


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