Illuminare le periferie e prevenire le nostre paure. Il caso Ebola

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Le periferie del mondo non illuminate, addirittura oscurate, fanno comodo a tanti. La paura del momento si chiama Ebola e tutti i paesi occidentali si stanno attrezzando a fronteggiare un’epidemia che, per fortuna, forse non ci sarà mai. Ma un solo caso sfuggito alla rete di protezione basta a diffondere panico vero. Negli Stati Uniti persone originarie delle zone africane dove il virus sta mietendo vittime vivono un isolamento che arriva a vedersi rifiutata una semplice stretta di mano. Sul confine tra ragione, scienza e irrazionalità contagiosa non si fanno prigionieri. Bel mix di storie solo apparentemente diverse quella della “bomba” Ebola. Non a caso resistono teorie, fantasiose, su ricerche sfuggite di mano in laboratori a caccia di un arma-virus letale; non a caso romanzieri di successo ci hanno inzuppato il pane, Ken Follet e Tom Clancy tra i primi, approfittando della buona aria di “spy story” virale. Ma quante volte l’occidente,
 oggi spaventato a morte, non ha voluto vedere, illuminare questa storia di villaggi africani alla periferia del mondo? Nel 1967 si infettano due tecnici di laboratorio nella città tedesca di Marburg. Siamo in piena guerra fredda, per la prima volta si sente parlare di una febbre emorragica mortale il cui virus è nei reni di scimmie verdi ugandesi. I 37 contagiati dimostrano che si diffonde facilmente ma è storia di un terzo mondo tanto lontano, invece di illuminare quella periferia si oscura il tutto. Il Marburg virus è molto simile a Ebola, è un filovirus, la sua forma al microscopio ricorda un filamento. La stessa brutta faccia che ritrovano si davanti i ricercatori nel 1976 nell’ex Zaire, al secolo Repubblica Democratica del Congo, alla prima vera epidemia di Ebola. Nel frattempo un altro virus “compare” era stato individuato a Reston  in Virginia, Stati Uniti, anche lì c’entravano ricerche su scimmie africane e anche in questo caso si
 infettarono tecnici di laboratorio. Ma dal 1976, dall’epidemia congolese, non c’erano più  dubbi: Ebola, Marburg, Reston, chiamatela come volete, una famiglia di virus potenzialmente mortali per l’uomo e di facile diffusione era arrivata sulla scena, ballava sul fondo del palco – dove la luce è poca – ma non aveva nessuna intenzione di fermarsi. Ci furono epidemie in Sudafrica, in Kenya, Congo, Sudan, Costa d’Avorio, Uganda, oggi in Sierra Leone, ma erano sempre storie lontane, al confine di quella apparente barriera di sicurezza che da buoni occidentali mettiamo tra noi e la vita di chi ci appare tanto diverso. Ebola sarebbe stata una bella partita per case farmaceutiche, si sarebbero messe d’accordo (come fanno spesso), avrebbero fatto a gara per trovare un vaccino o anche solo una cura efficace se solo fosse stato un problema “nostro”. Avremmo acceso tutti i riflettori su quel virus se non fosse stato relegato a minaccia
 “d’altri”, minaccia africana. Ma i conti i giganti del farmaco li fanno in fretta: se anche si fosse trovato un rimedio dopo investimenti di milioni di dollari chi avrebbe pagato per comprarlo? Gli stati africani non hanno nomea di buoni pagatori e se il rimedio l’hai messo in freezer difficilmente lo puoi nascondere. Pressioni politiche, umanitarie, avrebbero costretto a metterlo a disposizione gratis o quasi… non sarebbe stato un buon affare. Meglio girare la testa dall’altra parte e restare pronti, pronti fino a oggi. Ora che il virus minaccia chi ha i soldi per pagare una cura avanti tutta, più l’occidente si spaventerà più l’affare sarà buono. Illuminare le periferie vuol anche dire mettere in luce le nostre paure prima che diventino grandi e difficili da controllare. Dal 1967 a oggi, forse, un rimedio stabile, validato, i malati di Ebola avrebbero potuto trovarlo. Mi vengono in mente quei costruttori intercettati che ridevano
 mentre L’Aquila crollava. Non vorrei ce ne fossero altri altrettanto felici quando un caso di Ebola viene confermato nei paesi disposti a pagare profumatamente una cura efficace. 


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