Samira al Nuamimi ha resistito e speriamo che molte altre siano disposte a farlo

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A Samira sarebbe bastato ritrattare per essere scarcerata, ma non lo ha fatto. Per  cinque i giorni è stata torturata nella prigione di Mosul, nel nord dell’Iraq dai miliziani  che volevano convincerla a chiedere scusa. Quando hanno capito che non ci sarebbero riusciti , l’hanno uccisa, giustiziata sulla pubblica piazza.

Samira Saleh al Nuamimi  era un’avvocatessa  irachena, attivista per i diritti delle donne e delle minoranze.  Non se ne era mai andata dal suo paese  in tutti questi anni di guerra civile e non aveva mai smesso di dire la sua opinione attraverso i social network, nemmeno negli ultimi mesi, da quando la sua città era stata conquistata dai seguaci del califfo al Bagdadi.  Ha continuato a scrivere e  a parlare e il 17 settembre i miliziani sono entrati in casa sua e l’hanno portata via.

Il coraggio di parlare , dicendo la propria opinione, in una situazione di pericolo come quella in cui viveva Samira, suscita ammirazione e sgomento.  Ma il coraggio di resistere alle torture dei fanatici islamisti supera per noi , che viviamo in un mondo libero, ogni possibile immaginazione.  Le foto di Samira che compaiono oggi sulla rete, ce la riportano sorridente, coperta dal velo islamico, grandi occhi e labbra carnose, giovane e anche bella. Come sarebbe stata Samira, ci viene da pensare , in giro per le strade delle nostre città.  Sarebbe stata elegante e attraente, sarebbe andata al cinema insieme ai suoi amici e si sarebbe seduta in un caffè. Sarebbe uscita di casa mattina e sera, salendo sulla sua macchina o prendendo l’autobus  per andare e tornare dal lavoro,  discutendo e faticando come fa ognuno di noi, ma senza rischiare la vita.  Avrebbe fatto la spesa e portato a passeggio il suo cane, avrebbe riso e chiacchierato col suo fidanzato.

Invece è rimasta in Iraq e non se ne è andata nemmeno quando stavano arrivando i soldati del califfo nero.  Fino a che punto, ci fa pensare Samira , può essere radicata la forza delle proprie idee, per decidere di resistere come ha fatto lei.  Cosa pensava Samira in carcere nei suoi ultimi giorni di vita, quando continuava a dire no ai soldati vestiti di nero? Voleva far capire a chi la torturava che resistere è possibile, far sapere che molte donne come lei lo avrebbero fatto. Di certo chi l’ha uccisa adesso sa che non basta terrorizzare per spegnere una fiamma.  Noi che stiamo dall’altra parte della barricata e molto spesso abbiamo paura di esprimere la nostra opinione senza rischiare niente, sappiamo che Samira ha resistito e speriamo che molte altre, come lei ,siano disposte a farlo.  Ieri una donna di Raqqa ha avuto il coraggio di girare per le strade con una telecamera nascosta e ci ha fatto vedere cosa succede da quelle parti.  Seguiamo le vicende del Medio Oriente con angoscia sempre crescente, le nuove alleanze per combattere l’Isis ci fanno sperare che almeno militarmente lo stato islamico possa in qualche modo essere arginato , ma sappiamo che non sarà un processo facile.

Il sacrificio di Samira  però ci lascia sbigottiti. La sua storia è così sconvolgente da far pensare che non resterà isolata . Oggi ne hanno parlato al Palazzo di vetro dell’Onu e questo ci dice che dobbiamo continuare a parlarne, perché la fiamma che Samira ha acceso nella sua cella di Mosul non si spenga mai.


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