Le novità sulla morte di Borsellino

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Grazie alle conversazioni che Salvatore Riina, più noto nella lingua dei mafiosi siciliani come il capo dei capi, sta scambiando con uno dei capi della Sacra Corona Unita, Alberto Lorusso, nel carcere Opera di Milano, alcuni aspetti della strage di via D’Amelio, compiuto nel luglio 1992 a Palermo che condusse alla morte del magistrato palermitano e di uomini e donne della sua scorta, emergono con maggiore chiarezza e servono a capire meglio la forza di Cosa Nostra e le sue sicure alleanze nell’Italia di quegli anni. Innanzi tutto l’associazione mafiosa siciliana sapeva esattamente come e quando poteva colpire a morte Paolo Borsellino. Ormai le rivelazioni di Riina sono state trascritte dagli uomini della Direzione Nazionale Antimafia e fanno parte dei materiali inclusi nei fascicoli del processo in corso a Palermo sulla trattativa tra mafia e Stato. L’appuntamento, secondo quello che aveva detto il magistrato, era previsto intorno alle cinque del pomeriggio davanti all’appartamento di Maria Lepanto, madre del magistrato. E i due erano stati intercettati telefonicamente dai mafiosi tanto che questi ultimi avevano deciso di imbottire la centoventisei parcheggiata in via D’Amelio con un altro sacco di esplosivo.
Riina di Borsellino dice: “Era un portentoso magistrato come Giovanni Falcone. Avevano fatto carriera insieme. L’ho cercato per una vita a Marsala (dove Borsellino aveva fatto il procuratore della repubblica,ndr) ma non l’ho mai trovato.” Il collaborante di giustizia Spatuzza, arrivato dopo i primi due processi (e, dopo anni, la rivelazione di Scarantino come falso pentito messo in mezzo per depistare le indagini) ha rivelato che nel garage dove era stata attrezzata la 126 con la bomba per l’attentato c’era una persona che non faceva di sicuro parte di Cosa Nostra.
Ma né le rivelazioni di Riina, che potranno anche seguire a quelle già fatte – se continuerà lo scambio incominciato con il pugliese Alberto Lorusso – né quelle – successive – di Spatuzza rispondono alla domanda di fondo, che ancora resta senza nessuna risposta: una risposta che dovrebbe essere duplice e che riguarda i perché di quell’assassinio e tutti i mandanti che ebbero interesse ad eliminare, dopo la strage di Capaci, anche Paolo Borsellino e le persone della scorta che doveva proteggerlo. Le risposte, almeno per ora, restano ancora ipotetiche e senza una precisa, o definitiva, risposta.
Sul perché di quell’assassinio, il tempo che è passato, quel che è successo nei decenni successivi, tutto induce a far pensare che la strage rispose innanzitutto all’obbiettivo di completare l’opera iniziata vicino all’aeroporto di Palermo e impedire all’amico di Giovanni Falcone di proseguire l’opera di repressione e di indagine approfondita del fenomeno mafioso. Ma, subito viene da chiedere, perché subito dopo Capaci e proprio allora?
E qui i documenti, già depositati nel processo di Palermo, e che chi scrive ha potuto consultare, inducono a pensare che fosse allora in pieno svolgimento il confronto aperto tra le richieste presentate nel papello dai capimafia siciliani guidati ancora da Riina (che sarebbe stato arrestato, qualcuno ricorderà, nel gennaio del 1993) e i ministri Scotti e Conso del governo di allora. E che Borsellino – per le cose dette in pubblico come in privato) – fosse il magistrato indiziato come il maggior oppositore di quella trattativa. E’ ancora più difficile capire quali fossero le persone o le forze interessate a compiere o, meglio a far compiere, il sanguinoso attentato ma qui il campo delle ipotesi necessariamente si allarga quanto – per citare un autore che ebbi la fortuna, di conoscere e frequentare come il filosofo del diritto Norberto Bobbio – a quello che potremmo definire come “il campo delle associazioni segrete, o meglio ancora invisibili”.Cioè al riparo da sguardi indiscreti, che hanno albergato nel nostro Paese e con ogni probabilità ancora vi albergano e vi prosperano.


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