Nuovo giro di vite su internet e copyright

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Si chiude oggi ad Ottawa in Canada, l’ultimo round dei negoziati relativi al segretissimo accordo commerciale Trans-Pacifico (Trans-Pacific Partnership – TPP). L’accordo multilaterale che mira a riscrivere gran parte degli accordi commerciali su brevetti, marchi, copyright e carte geografiche, coinvolge 12 paesi dell’area del Pacifico: Stati Uniti, Canada, Messico, Peru, Cile, Australia, Nuova Zelanda, Singapore, Malesia, Vietnam, Brunei e Giappone. E costituirà la base vincolante per futuri accordi commerciali che altri paesi vorranno stabilire con i primi firmatari, Italia inclusa.

I 12 paesi coinvolti, che rappresentano circa il 50% del Pil mondiale, dovevano incontrarsi a Vancouver e solo all’ultimo momento hanno scelto l’hotel Delta di Ottawa per evitare le annunciate contestazioni, visto che i pochi documenti noti al riguardo sollevano molti dubbi sul futuro della libertà di comunicazone, la tutela dell’ambiente, della salute, del lavoro e altri diritti civili.

Questo è il motivo per cui la base elettorale dei democratici americani ha inviato tre lettere ai suoi leader chiedendo di ripensare il TTP e di farne oggetto di dibattito pubblico. Per intenderci, questi accordi, al pari del Nafta (accordo nord-atlantico) o del TTIP (accordo Usa-Ue), influenzano le relazioni commerciali fra gli stati e lasciano spazio al settore aziendale per fare causa ai governi che eventualmente li contraddicono. Un esempio è quello della Philip Morris che ha fatto causa all’Uruguay per l’avviso dei rischi alla salute nei pacchetti di sigarette: violerebbero la proprietà intellettuale e ne impedirebbe un efficace marketing.

E infatti, secondo l’associazione canadese Open Media, che dichiara di aver ricevuto per sbaglio tramite email parte di questi accordi segreti (https://wikileaks.org/tpp/) il nucleo centrale del trattato non riguarderebbe tanto il commercio ma l’espansione del potere dell’industria dei media e dei contenuti come era accaduto nel caso dell’ACTA (Accordo Anti Contraffazione)

Quando se ne venne a conoscenza nel 2012 grazie ai documenti trapelati da Wikileaks si temette per la libertà d’espressione su Internet, per la privacy e l’innovazione tecnologica, perchè assemblava una serie di proposte sull’allungamento della durata temporale del copyright (fino a 140 anni), e sull’applicazione delle leggi a sua tutela, che andavano dalla censura alle multe, fino alla galera, per innocue attività come il remix di brani musicali e le canzoncine da associare ai video su youtube realizzati per scopi ludici e non commerciali. In aggiunta prevedeva disposizioni sul digital rights management (DRM) da incorporare a livello software in telefonini e computer. Molte di quelle proposte, già portate da Vivendi, Sky, Mediaset ed altri all’UNione Europea nel 2006 (http://ec.europa.eu/archives/information_society/avpolicy/docs/other_actions/contributions/cmba_col_en.pdf), sono diventate leggi ed hanno consentito ai paesi che le hanno varate, di uscire dalla famosa lista 301, la lista degli stati canaglia che secondo gli Usa non rispettano la proprietà intellettuale.

L’ultima versione del TPP, secondo Open Media Coalition, Electronic Frontier Foundation ed altri gruppi di attivisti, se approvata, renderà gli intermediari di Internet responsabili dei contenuti del loro traffico, impedirà copie temporannee di materiali coperti dal diritto d’autore, allungherà i tempi di tutela del copyright e ne ridurrà il fair use (l’uso legittimo di materiali coperti da diritti, articoli di giornale compresi). Il primo effetto, secondo gli esperti come Michael Geist, sarebbe quello di bloccare siti web, minacciare la privacy e rendere Internet più costosa per gli obblighi di sorveglianza in capo agli intermediari che si rifarebbero sugli utenti.

Secondo l’Huffingon Post, lo strumento dell’accordo commerciale verrebbe usato per ottenere questi risultati sulla base di norme internazionali che consentono di mantenere segreti gli incontri e gli accordi bilateriali, superando gli obblighi di trasparenza delle democazie avanzate. E per questo 30 grandi aziende e associazioni per i diritti civili – Tucows, APC, Techdirt, Fight for the future – hanno dato vita alla “Our Fair Deal Coalition” (http://ourfairdeal.org/) che punta a fermare il patto, avviando una campagna che ha finora coinvolto decine di migliaia di cittadini.


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