L’infelicità porta alla corruzione?

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di Augusto Cavadi

I nostalgici del ventennio fascista, che addebitano alla democrazia costituzionale le cause dei mali attuali, ignorano – o fanno finta di ignorare – che prevaricazioni e ruberie avvengono anche, e soprattutto, quando alla stampa e agli altri mezzi di comunicazione sociale è vietata ogni forma di denunzia. Né si stava meglio nei secoli precedenti: per quanto indietro si vada, incontriamo le arringhe di Cicerone contro Verre, l’urlo sarcastico di Virgilio contro la «sacra fame di denaro» sino alle condanne dei profeti biblici contro i giudici che si vendono senza ritegno a danno dei diritti degli orfani e delle vedove. Insomma: la corruzione, e la rispettiva concussione, non sono un fenomeno recente.

Questo dato, tanto certo quanto spesso dimenticato, può essere utile a chi cerchi facili, e fallaci, consolazioni al cospetto delle cronache recenti che, secondo un magistrato veneto, registrano sistemi corruttivi molto peggiori di Tangentopoli; ma può, al contrario, indirizzare chi voglia affrontare la questione con la dovuta radicalità. La diffusione nello spazio e la persistenza nel tempo della corruzione dovrebbero sollecitare tutte le opportune revisioni legislative, a cominciare dall’obbligo – per chiunque rivesta incarichi di responsabilità nelle istituzioni – di sottoporsi a un’incondizionata trasparenza bancaria (sia in entrata che in uscita); ma, anche, ad andare un po’ più a fondo rispetto al piano normativo e giudiziario. È difficile, infatti, sostenere che si possa tessere una trama così perfezionata di regole, di divieti e di controlli da rendere impossibile la trasgressione. La garanzia della legalità affonda le radici nel terreno dell’etica. Se l’unica ragione di non delinquere è la paura della sanzione, prima o poi il calcolo degli interessi finirà col convincermi – talora a torto, talaltra a ragione – che il gioco (il profitto illecito) vale la candela (disattendere la norma).

Nell’era della globalizzazione, della multiculturalità e del meticciato, non è ipotizzabile (ammesso che lo sia stato in epoche anteriori) la condivisione unanime di princìpi etici: eppure un grappolo di criteri, per quanto ridotto, è irrinunziabile. Ogni paese ha il diritto, e prima ancora il dovere, di fissare i propri: l’Italia lo ha fatto con i primi tredici articoli della sua Costituzione nel 1948. Che cattolici e radicali, islamici e socialisti, conservatori e buddhisti, protestanti e atei abbiano le stesse ragioni per giustificare tali princìpi etici, non è né prevedibile né (probabilmente) auspicabile. A questo livello fondativo il pluralismo culturale non può che essere massimo. Ma molte modalità di argomentare la dignità delle persone, la lealtà nelle relazioni, la correttezza nell’espletamento delle proprie funzioni sociali, la sobrietà allegra nell’uso del denaro… non può significare, come mi pare stia avvenendo dal craxismo degli anni Ottanta a oggi, rinunzia a qualsiasi argomentazione. Ogni cittadino, ogni famiglia, ogni Chiesa, ogni associazione, ogni movimento deve darsi una risposta – per quanto possibile consapevole – alla domanda cruciale: perché non rubare? Perché anteporre il bene pubblico all’interesse privato? L’etica protestante offrirà motivazioni diverse rispetto a un’etica naturalistica, così come diverse saranno le motivazioni di un partito di ispirazione liberale rispetto a un sindacato di ispirazione socialista: ma nessuno può ancora esonerarsi dal ricercare le proprie.

In questa ricerca delle ragioni radicali per non asservirsi al denaro, e per non asservire col denaro, più di un sentiero potrebbe ricondurre a un’intuizione comune a molte saggezze. Kierkegaard l’espresse affermando che non si è angosciati perché si pecca, ma si pecca perché si è angosciati. In termini laici tradurrei: non si è infelici perché si corrompe, e ci si lascia corrompere, ma si sguazza nella corruzione perché si è infelici. Se la diagnosi fosse almeno parzialmente corretta, la terapia si delineerebbe spontaneamente: ricercare qualche briciola di felicità. Riscoprire la gioia dell’amicizia sincera, il piacere della sessualità condivisa, la beatitudine di chi sa contemplare un tramonto o chinarsi sulle piaghe di un malato abbandonato. Riscoprire il senso interiore di fervida pienezza che può dare un’esistenza politica a servizio del benessere comune, al punto da ritenere non un’aggiunta integrativa, bensì una perdita inquinante ogni euro sottratto con l’inganno ai diritti dei propri simili, soprattutto dei più indigenti.

(pubblicato su Confronti di luglio/agosto 2014)

Da confronti.net


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