Caso Tavecchio. Quando il calcio diviene “il Colosseo del razzismo”

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Noi le banane le mangiamo tutti. E da tantissimo tempo! E poi questo frutto antichissimo, che risale ai primordi dell’era umana e che oggi si coltiva soprattutto in India e nell’America latina, ha tirato su decine e decine di milioni di italiani al posto delle vitamine in scatola,quando negli anni Cinquanta e Sessanta i pediatri si affannavano a prescriverne il consumo su larga scala. Allora Signor Carlo Tavecchio, chi sono i consumatori di banane? Quelli come Riva, Mazzola e Rivera che son cresciuti forti, atletici e diventati famosi proprio perché nella loro dieta da calciatori, e ancor prima, c’erano anche le banane? Oppure i nuovi calciatori “di colore”, come Balotelli, El Shaarawy e Ogbonna, talenti azzurri dalle alterne fortune, italiani a tutti gli effetti, anche se di origini africane?

Il mondo del calcio italiano se n’è andato nel “pallone”, proprio all’indomani della disastrosa avventura al Mondiale del Brasile, delle dimissioni dei due “responsabili” della disfatta, il CT Cesare Prandelli e il presidente della Federcalcio Giancarlo Abete, e della corsa senza esclusione di colpi per la nomina del suo nuovo presidente. In questa sfida, Tavecchio, uno dei più anziani dirigenti del settore, finora era opposto al giovane ex-calciatore Demetrio Albertini: il “vecchio che avanza” contro il “nuovo con incognite”. Il cosiddetto “potere calcistico”, i proprietari delle squadre di Serie A e B, era già piuttosto compatto sul nome di Tavecchio (anche se Juventus e Roma storcevano la bocca), con il beneplacito del presidente della Lega Calcio, la “Confindustria del pallone”, Maurizio Beretta. Gli altri protagonisti, gli allenatori e i calciatori, erano invece pro-Albertini.

Al grido di “ci vuole una riforma del calcio italiano”, “bisogna voltare pagina”, “mai più cose dell’altro mondo come in Brasile”, ecco che proprio coloro che stanno mandando in crisi il calcio italiano (i patron di Serie A e serie B) hanno scelto di “cambiare tutto perché nulla cambi”. I novelli “Gattopardi” hanno così scelto “l’usato garantito”, perché così nessuno potrà interferire sui loro veri affari: i diritti sportivi TV (mille miliardi di euro per 3 anni da Mediaset e SKY Italia!), che ormai garantiscono loro i veri guadagni del settore, visto il perdurare del calo degli spettatori negli stadi e le continue debacle nelle competizioni europee per club, oltre ai debiti accumulati negli anni per gli sprechi di gestione.

Tavecchio, comunque, una certa conoscenza dovrebbe averla riguardo al settore giovanile e dilettantistico, dove da anni pullulano intermediari e agenti di calciatori extracomunitari, soprattutto africani, che vengono sradicati dai loro paesi d’origine, arruolati in club minori e scambiati a suon di contratti particolari, che permettono a molte squadre di rimpolpare i conti disastrati, dando vita però ad un impoverimento dei vivai giovanili. Ovvero, proprio quei settori da dove il nuovo calcio italiano dovrebbe pescare per “allevare” i talenti del futuro prossimo, in grado di arricchire sia le società professionistiche, sia le squadre nazionali, che ormai non vincono un titolo da molto tempo nelle varie categorie.
E poi c’è l’inquietante tema delle violenze e del razzismo che imperversano dentro e fuori gli stadi, ormai unici luoghi di battaglia e di scontri pre-politici, sociali; moderne arene, Colossei, dove scaricare tutta l’aggressività repressa. Anziché pensare a come “bonificare” gli stadi, la Lega calcio e la Federcalcio stanno facendo forte opera di lobbying verso governo e Parlamento, affinchè vengano creati nuovi stadi, di proprietà dei club, moderni centri commerciali attorno ai quali poter edificare anche quartieri residenziali.

Morti e feriti dentro e fuori gli stadi, ritorsioni e faide sempre più tragiche, ma la musica da noi non cambia. Esiste solo il metodo coercitivo di far pagare alle società delle multe per i cori razzistici, chiudere le “curve” degli ultrà, bloccare i più facinorosi fuori dagli stadi per qualche partita. E intanto la gente normale fugge proprio dagli stadi! Né sembra che vada tanto bene alle TV che hanno acquistato i diritti per le partite, visto che i canali “premium”, via digitale terrestre e via satellite non stanno tanto brillando come utili.

A proposito del mondiale, poi, i tanti commentatori che si dividono poltrone e cachet negli studi televisivi, pontificando ditattiche, tecnici e calciatori, oltre che del’universo mondo, nessuno aveva pronosticato una debacle del genere dell’Italia di Prandelli; tutti si erano sperticati in elogi del nostro Balotelli, rivelatosi poi un discreto attaccante e nulla più, nessuno che dopo la disfatta abbia indicato come e con quali uomini cambiare il caravanserraglio dello spettacolo pallonaro.

Certo, c’è l’esempio della Germania campione del mondo, che dopo la disfatta in semifinale con l’Italia (poi vincitrice dei mondiali tedeschi) nel 2006 ha deciso di rivoluzionare tutta l’organizzazione del calcio federale, di puntare sui vivai e sull’integrazione dei calciatori provenienti dalle famiglie di immigrati. Ecco, così, che da qualche anno la Germania è ritornata ai primi posti, facendo scendere in campo squadre nazionali con innesti di turchi, polacchi, africani, tutti cittadini tedeschi.

L’Italia, invece, sta alla finestra, a guardare mangiare le banane da parte di quei vecchi dirigenti nostalgici di un periodo antistorico, incapaci di adeguarsi al mondo globalizzato. Non c’è dunque bisogno di dejà-vu come Tavecchio e company per far finta di cambiare, senza cambiare nulla. L’accoglienza e l’integrazione dovranno essere i binari entro i quali far ripartire la locomotiva dello sport. Un suggerimento al governo e al Parlamento ci sentiamo di inviarlo: perché non commissariare la Federcalcio, modificare la sua struttura, lo statuto, elaborare un progetto di rivalorizzazione dei vivai, che rispetti l’integrazione e che liberi questo bellissimo gioco dai legami inconfessabili , addirittura malavitosi,che opprimerebbero alcune società, complici le varie tifoserie organizzate?

Forse, l’esempio della Germania non è stato mai così tanto calzante nello sport, come in economia…


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