Il Medio Oriente ha un nuovo negoziatore, è Papa Francesco

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Neanche le elezioni europee hanno scosso più di tanto l’opinione pubblica italiana dal costante ripiegamento sugli affari interni di casa nostra. Non è bastato neppure l’evidente impatto sul contesto continentale dei risultati italiani a produrre, a parte qualche sussulto, una svolta di visione o interpretativa. Nello stesso modo, e forse in maniera ancor più evidente, non è stato seguito con la dovuta attenzione  il colpo di scena messo a segno dal papa in Medio Oriente. Francesco è riuscito a convocare in Vaticano per il prossimo 8 giugno i due presidenti Mhamoud Abbas e Shimon Peres, rappresentanti a capo dell’autorità palestinese  – o dello Stato palestinese secondo le recenti deliberazioni delle Nazioni Unite – e d’Israele.

In realtà Bergoglio li ha convocati per un incontro di preghiera per la pace, ma di certo l’occasione è storica: il Vaticano diventerà fra pochi giorni il terreno neutrale in cui il colloquio impossibile, quello fra israeliani e palestinesi, diventerà invece realtà. I due esponenti politici hanno risposto all’unisono di sì riconoscendo nella mossa del Papa la fine di un’emarginazione forzata cui sono stati sottoposti in questi anni dall’equilibrio del terrore di cui sono stati artefici da una parte la coppia Netanyahu-Lieberman, e dall’altra l’asse Hamas-Hezbollah-Iran. Con gli Stati Uniti ormai incapaci di una strategia complessiva sull’intera regione.

L’iniziativa di papa Francesco è riuscita a dimostrare che l’immobilismo non è una condanna, che l’ineluttabilità dello status quo può essere superata, che la politica ha uno spazio di manovra molto più ampio di quanto non si voglia far credere. Non solo: i due leader chiamati da Bergoglio, in questi anni si sono incontrati diverse volte per mettere a punto un’ipotesi di piano di pace, il colloquio in Vaticano vuole essere allora anche una prova tangibile che il negoziato non è chiuso in un coacervo di reciproci veti, può anzi riprendere, è una strada percorribile. Per altro Peres è alla vigilia della scadenza del suo mandato, il nuovo presidente d’Israele verrà infatti eletto nelle prossime settimane. E allora l’invito di Francesco oltre ad essere un riconoscimento storico verso uno dei firmatari degli accordi di Oslo – gli altri due protagonisti, Rabin e Arafat, in forme diverse sono stati assassinati – rappresenta, allo stesso tempo, un’indicazione ideale alla Knesset su tipo di personalità di cui ha bisogno Israele e di cui, in generale, ha bisogno la pace.

Francesco, insomma, fa ripartire la politica estera in grande stile e la tradizione della diplomazia vaticana torna a far sentire la sua voce. Nel mondo iper-globalizzato, infatti e paradossalmente, è proprio la politica la grande assente dalla scena del mondo, mentre gli interessi nazionali diventano ogni giorni più invasivi e violenti. La politica della Santa Sede in questa fase, va infine sottolineato, non si limita ad affrontare la questione classica Israele-Palestina, tocca al contrario tutti gli aspetti della crisi mediorientale cogliendone l’interconnessione e i collegamenti.

Nel suo breve viaggio in Terra Santa il papa ha infatti dedicato un’intera giornata ai profughi di stanza in Giordania; siriani in primo luogo, m anche iracheni e palestinesi. Quasi una popolazione a parte che vive ormai nei campi lungo i confini dei vari Paesi. In quest’occasione Francesco ha sollevato il tema centrale del traffico d’armi e di quei poteri che hanno interessi a promuovere le guerre, a cominciare dallo scenario siriano ma non solo. Una visone che non fa sconti a nessuno, né agli arsenali del regime autocratico di Assad né alle bande armate dei fondamentalisti.

Francesco ha quindi chiamato in causa la comunità internazionale quale istanza irrinunciabile, anche sotto il profilo morale, per la soluzione delle crisi che attraversano il pianeta.  Francesco ha poi pregato davanti al muro che separa Betlemme da Israele e ha condannato ogni forma di antisemitismo, ha infine cercato di riportare i popoli al centro del discorso pubblico, politico e religioso. In questa operazione complessa è stato accompagnato da un Segretario di Stato, il cardinale Pietro Parolin, che sembra aver ritrovato il passo della grande diplomazia dopo le incerte vicissitudini degli anni passati. E’ stato ancora Parolin, da ultimo, a chiedere l’apertura di canali umanitari in Siria, una richiesta tutt’altro che scontata nel momento in cui molte città piccole e grandi del Paese sono strette da un assedio medioevale ad opera delle truppe del regime. Ma anche in questo caso Parolin ha chiesto alle parti in conflitto di mostrare – al di là delle parole – la volontà politica di aprire un negoziato, di sedersi a un tavolo e fermare la strage.


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