La violenza feroce della non politica

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Nel corso della sua storia repubblicana, questo Paese si è trovato a votare nelle condizioni più disparate: tra i cumuli di macerie dell’immediato dopoguerra e mentre strade e piazze erano percorse da manifestazioni di segno opposto, spesso violente, spesso purtroppo dotate di appendici che sono costate sangue, dolore e vittime innocenti. Abbiamo votato mentre ancora si consumavano le vendette contro i responsabili dei crimini perpetrati dal fascismo e dai suoi sostenitori e mentre esplodevano le bombe di piazza Fontana e piazza della Loggia, del treno Italicus o della stazione di Bologna. Abbiamo votato durante Tangentopoli, quando i politici venivano inseguiti per le strade e bersagliati dai lanci di monetine e dalle accuse infamanti di essere “ladri”, scandite un po’ ovunque e riportate sui muri di tutta la Penisola, e negli anni del berlusconismo, con i giornali della famiglia Berlusconi trasformati in manganelli mediatici contro gli oppositori e l’apparato televisivo a completare l’opera. Inoltre, abbiamo conosciuto lo scandalo del SIFAR e il tentativo di golpe di Borghese, la tragedia morale della P2 e il delitto Moro, una serie infinita di punti oscuri, trame ai limiti della legalità e trattative sotterranee, comprese quelle agghiaccianti con le organizzazioni criminali negli anni di massima debolezza del nostro sistema democratico e istituzionale. È accaduto tutto questo ma mai il dibattito politico aveva raggiunto questi livelli di violenza, volgarità, ferocia, insostenibilità, mai era risultato così insulso e privo di contenuti, mai si era basato su personalismi asfissianti e leadership di cartapesta, mai ci aveva fatto così vergognare di fronte a un mondo che certo non se la passa tanto meglio, visto e considerato che anche negli altri paesi dilagano, più o meno, gli stessi sintomi e livelli simili di imbarbarimento.

Tuttavia, qui da noi si è perso il senso stesso della politica, del rispetto per l’avversario, del valore simbolico e funzionale delle istituzioni, dell’importanza di riti e liturgie che non sono inutili vezzi di qualche passatista che fatica ad adeguarsi alla modernità ma i punti cardine del nostro stare insieme. Si sono persi i partiti, divenuti oramai dei mediocri comitati elettorali di questo o quell’urlatore di piazza; si è smarrita l’idea del confronto interno, del pluralismo delle voci, del confronto acceso ma costruttivo tra visioni differenti della società e del futuro, imprescindibili in qualunque comunità, essenziali in una comunità che si pone l’obiettivo di governare il Paese.

Si è perso completamente il senso stesso delle parole e della misura, della sobrietà e della delicatezza, tant’è che è tutto un susseguirsi di carri armati giocattolo e veleni d’ogni sorta, accuse odiose e strumentalizzazioni di tragedie quali la Shoah per meri fini elettorali. Non esiste più il concetto di limite: tutto è ritenuto lecito, tutto giusto, ogni strumento utilizzabile pur di arrivare primi, anche perché oramai, dopo vent’anni di martellamento in tal senso, siamo convinti che l’unica cosa che conti sia vincere, come se la complessità del governare fosse confondibile con una pur importantissima partita di calcio, come se dagli atti del presidente del Consiglio dipendesse il risultato di una squadra di calcio e non la vita di milioni di persone.

E, dunque, procediamo così, senza idee, senza speranze, senza nemmeno più quelle illusioni che contribuiscono a mantenere vivo un minimo di entusiasmo nei momenti peggiori, addentrandoci in una campagna elettorale che si preannuncia senza esclusione di colpi, all’insegna di toni selvaggi, di espressioni irriguardose, di scontri disumani fra personalità che hanno ben poco da dire e da dare, non essendo animate da un’ideologia, da una visione, da una prospettiva, non avendo un orizzonte cui tendere né una comunità con la quale condividere le proprie emozioni e i propri sentimenti.

Emozioni e sentimenti, a loro volta, non esistono più: hanno lasciato il posto al rancore, alla rabbia, alla logica emergenziale che ci ha imprigionati da anni in una gabbia dalla quale non riusciamo più nemmeno a immaginare di poter uscire e alla bestialità di promesse irrealizzabili, marcatamente populiste, assolutamente deleterie e destinate a trascinare l’Italia nel baratro di un fallimento che, continuando così, sarà purtroppo ineluttabile. Al che, a noi giovani che, in tanto sfacelo, dovremmo provare a costruirci un domani, non resta che prendere un po’ di spiccioli e recarci al cinema, dove in questi giorni si racconta la storia di un uomo chiamato Berlinguer che riempiva le piazze di passione civile e di entusiasmo, forte della solidità delle sue idee e della sua capacità di trasmetterle attraverso un linguaggio semplice e profondo, appassionato e sincero, in cui ogni parola emanava un senso di umiltà, pulizia, limpidezza. Dopodiché, appena usciti dalla sala, non si sa se sia il caso di piangere per ciò che è stato e purtroppo non è più o per il contesto in cui siamo immersi, con una non politica sempre più distante dalle esigenze dei cittadini, capace di farsi odiare persino da chi vorrebbe amarla ma non viene messo nelle condizioni di provare, nel suo piccolo, a renderla diversa e migliore.


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