La primavera verde militare d’Egitto

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di Mostafa El Ayoubi

Dopo l’estromissione del presidente Morsi, che voleva imporre una Costituzione islamista e fomentava lo scontro interconfessionale tra sunniti e sciiti, a giugno scorso gli egiziani sono tornati in milioni a piazza Tahrir e la giunta militare ha preso in mano il potere, mettendo fuori gioco i Fratelli musulmani. Ma i problemi politici e sociali restano: mentre l’élite militare controlla buona parte dell’economia, il paese versa ancora in condizioni di grave povertà.

La rivoluzione del 25 gennaio 2011 in Egitto, alla quale, a partire da piazza Tahrir, avevano partecipato milioni di cittadini delle più svariate tendenze politiche, culturali e religiose, aveva portato l’11 febbraio dello stesso anno alla caduta del regime di Mubarak durato 30 anni.

Due anni e mezzo dopo una seconda «rivoluzione», quella del 30 giugno 2013, ha portato alla destituzione di Morsi, eletto democraticamente presidente un anno prima. Diversamente dalla prima, questa seconda «rivolta» popolare è stata messa in atto da una parte della popolazione che aveva piazza Tahrir come quartier generale. Nel mentre la parte della popolazione fedele a Morsi aveva scelto la piazza Rabia al Adawiya come luogo simbolo di protesta contro la rimozione e l’incarcerazione del loro presidente da parte della giunta militare. Gli anti-Morsi avevano sostenuto la repressione violenta perpetrata dall’esercito ai danni dei pro-Morsi e avallato la reintroduzione (temporanea!) dello stato di emergenza.

Questo episodio ha di fatto sancito una grave spaccatura sociale all’interno di un paese alle prime armi con il gioco della democrazia. E ha ridimensionato il sogno iniziale di un futuro Egitto finalmente democratico, prospero e sovrano. Si è quindi ritornati al punto di partenza di tre anni fa.

Ma chi sono realmente i responsabili di questa involuzione? In molti attribuiscono la colpa al movimento dei Fratelli musulmani (Fm). Ciò è vero ma solo in parte. I Fm, forti di un sostegno popolare, sono giunti al potere nel 2012 in un contesto politico, sociale ed economico molto fragile. Dopo la rivoluzione, i Fm avevano subito avallato una Costituzione rimaneggiata dai militari e sottoposta a referendum nel marzo 2011 per poter arrivare subito alle elezioni: avevano trionfato alle legislative e vinto – anche se di misura, con il 51% – alle presidenziali con il loro candidato Morsi. Quest’ultimo, legittimato dalle urne e sostenuto da alcune potenze occidentali, pensava ingenuamente di disporre di un potere assoluto: si era attribuito diversi poteri costituzionali e aveva imposto agli egiziani una nuova Costituzione redatta da una commissione in maggioranza islamista e con impronta marcatamente religiosa. La politica di Morsi aveva inoltre fomentato lo scontro interconfessionale tra sunniti e sciiti. Aveva interrotto le relazioni diplomatiche con il regime alawita (sciita) in Siria dopo che i teologi egiziani vicini ai Fm avevano emesso una fatwa per il jihad contro al-Assad. In seguito a questa presa di posizione, un imam sciita egiziano ed esponenti della sua comunità sono stati trucidati da fanatici jihadisti il 24 giugno scorso in un villaggio vicino al Cairo.

Nei discutibili provvedimenti presi da Morsi – nel suo anno di governo – una parte della popolazione ha avvertito lo spettro di un dittatore religioso e quindi si è mobilitata. La storia ci dirà se questa mobilitazione è stata spontanea o etero-diretta. Sta di fatto che il 30 giugno scorso gli anti-Morsi (in milioni) avevano partecipato ad un’azione di ribellione a piazza Tahrir e il 3 luglio la giunta militare aveva arrestato Morsi e diversi membri dei Fm e ripreso in mano il potere. I protagonisti di quella ribellione avevano accolto festosamente quello che di fatto è stato un colpo di stato militare camuffato dietro una mobilitazione di civili.

I Fm hanno avuto senza dubbio le loro gravi colpe nel gestire la fase di transizione post-rivoluzionaria. Tuttavia i militari rimangono i principali responsabili dell’impasse in cui versa l’Egitto. L’élite delle forze armate è stata da sempre una parte strutturale della perenne crisi egiziana: ha dominato il paese dal 1952 fino al 2011 e di democrazia non si era mai (pre)occupata.

L’Egitto, nonostante le sue risorse naturali e umane, patisce – oltre ad una crisi politica cronica – gravi problemi di povertà e sottosviluppo. Il 20% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà. Ciononostante, l’esercito egiziano è una delle più ricche forze armate del mondo. L’élite militare controlla il 30-40% dell’economia del paese. Parlando solo nel settore civile, essa dispone di aziende che producono pasta, olio, acqua minerale, elettrodomestici; gestisce una catena di stazioni di servizio (Al-Watania) per la vendita dei carburanti. È inoltre proprietaria di terreni, aziende agricole, immobili e altro. Le attività economiche produttive della giunta militare sono esonerate dalle tasse e i suoi bilanci economici sono considerati top secret: la violazione è soggetta a sanzioni penali.

L’onnipotenza dell’esercito militare egiziano deriva anche dal grosso sostegno da parte degli Usa che considerano l’Egitto uno snodo strategico per la loro politica in Medio Oriente. Dal 1979, data della ratifica del trattato di Camp David tra Israele ed Egitto, l’esercito egiziano riceve annualmente 1,3 miliardi di dollari dagli Usa, paese dove periodicamente i quadri militari egiziani si recano per seguire corsi di addestramento e di formazione.

Il generale Abdl Fattah al-Sisi, formato anche lui nelle scuole militari statunitensi, è oggi di fatto l’uomo forte del paese: è capo del Consiglio supremo delle forze armate (Csfa), viceministro dell’Interno e ministro della Difesa. È stato lui ad indicare una road map per uscire dalla crisi. Sotto il controllo del Csfa è stata creata una commissione costituente composta da 50 membri. Nessun esponente dei Fm ha partecipato a tale commissione perché nel frattempo il movimento e il suo braccio politico, il Partito di libertà e giustizia, sono stati messi al bando e i suoi principali leader messi in galera. Ai primi di dicembre la commissione ha approvato una nuova Costituzione, che sarà sottoposta a referendum a metà gennaio. Questa nuova Carta costituzionale consente ai militari di mantenere il loro controllo sul paese: i tribunali militari per i processi contri i civili continueranno ad operare come ai tempi di Mubarak; la carica di ministro della Difesa – nei prossimi 8 anni – sarà indicata dal Csfa.

Una delle costanti universali della democrazia è la non ingerenza dell’esercito nella vita politica. In Egitto invece una parte del popolo egiziano oggi osanna i militari, il che significa che molti di coloro che hanno partecipato alla rivoluzione del 25 gennaio non avevano ben chiaro il significato della democrazia. Si tratta di un problema di maturità culturale che riguarda non solo gli egiziani ma tutte le società arabe.

Da confronti.net


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