Nei Partiti c’è democrazia?

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Proprio in questi giorni è all’esame del Parlamento il disegno di legge del Governo per la trasparenza e la democraticità delle formazioni politiche, che oltre ad abolire il finanziamento pubblico ai partiti e porre un tetto ai finanziamenti privati si prefigge, dopo sessant’anni, di dare vita ad una disciplina delle formazioni politiche. Ovvero di affrontare l’unico nodo che i nostri Padri fondatori non sono riusciti a scogliere durante l’Assemblea Costituente e che ci hanno lasciato in eredità: la regolamentazione dei partiti.

Infatti, come noto, le forze politiche dell’epoca  non riuscendo a trovare un accordo sul tema, strinsero un “patto tra gentiluomini” grazie al quale la regolamentazione dei partiti si sarebbe fatta in un secondo tempo.

Da qui l’art.49 della Costituzione nella formulazione che noi tutti conosciamo: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. E di conseguenza la necessità di indicare le modalità in cui si svolge l’attività dei soggetti politici attraverso una normativa attuativa, che purtroppo non ha mai visto la luce.

Pertanto, i partiti non sono soggetti a nessuna disciplina, e per il nostro ordinamento giuridico non esistono. Ciò si traduce in una totale libertà di azione delle forze politiche, i cui gli scandali di ieri e di oggi ne sono una prova lampante. Generalmente, in caso di presunte violazioni si rimette tutto al giudizio dei vertici del partito o nel migliore dei casi di una commissione di probiviri interni. Senza che gli iscritti o i cittadini possano fare in realtà granché per controllare che tutto si svolga secondo regole democratiche.

Questo perché la legge non prevede delle regole che garantiscano il democratico svolgimento delle attività dei partiti: sia per quanto concerne la scelta delle persone, sia per la formazione delle decisioni in generale.

Per uscire da questa impasse che dura da oltre mezzo secolo basterebbe seguire la strada indicata dai Padri costituenti nel 1946 quando la prima sottocommissione per la redazione della Costituzione stabilì, approvando un ordine del giorno di Dossetti e Moro, il principio del riconoscimento giuridico dei partiti politici e dell’attribuzione ad essi di compiti costituzionali.

A mio avviso, è essenziale che tale riconoscimento avvenga quantomeno nell’ambito del diritto privato, in modo da consentire alla comunità di controllare l’esistenza e il rispetto di norme statutarie che regolamentino i comportamenti delle formazioni politiche.

Una disposizione che purtroppo la proposta attualmente in esame non prevede e che ci auguriamo venga introdotta in sede di discussione parlamentare o in futuri provvedimenti legislativi.
In passato, altri interventi lodevoli volti a colmare questo vuoto normativo hanno portato a legare i rimborsi elettorali alla presentazione di statuti. Inutile dire che queste disposizioni sono  del tutto insufficienti. E per di più danno vita ad un’altra questione dirimente di primaria importanza: che cosa succede nel caso in cui una formazione politica (come nel caso M5S) decida di non avvalersi di fondi pubblici? È giusto che questi movimenti, rifiutando di catalogarsi nella definizione comune di “partito”, non siano soggetti a nessuna regola e a controllo alcuno? Il fatto che questi siano finanziati da privati non rende ancora più cruciale capire come ciò condizioni i loro comportamenti? E noi cittadini non vogliamo sapere come i fondi vengono spesi nell’esercizio dell’attività politica, sia che questi siano di provenienza pubblica sia privata (attraverso, ad esempio, la certificazione e pubblicazione dei bilanci)?

Ovviamente si può ipotizzare di tenere fuori da queste disposizioni i movimenti.
Ciò nonostante, è priorità assoluta per il Paese che le formazioni politiche (almeno quelle che approdano in Parlamento) siano trasparenti come delle case di vetro e che i loro comportamenti  siano soggetti a chiare regole e controlli, sia nella scelta delle persone che in generale nelle loro azioni, così come è bene che sia noto a tutti come vengono impiegati i fondi, chi finanzia questa o quella forza politica e con quanti soldi.

Le nonne un tempo dicevano che il “pesce puzza dalla testa”: ecco, per risolvere il problema della “macchina Italia” non serve la rivoluzione, infamare tutto e tutti, o ridurre al minimo gli stipendi dei Parlamentari. Se una persona non fa o non fa bene il suo lavoro anche dieci euro sono troppi! Quello che noi cittadini possiamo e dobbiamo pretendere sono precise regole e controlli sui soggetti politici che garantiscano una democratica selezione della classe dirigente – finalmente in base al merito – e un buon funzionamento delle istituzioni.

Come sosteneva Piero Calamandrei: “In Italia non è possibile una compiuta democrazia se non sono veramente democratici anche quei soggetti ai quali spetta determinare la politica nazionale”.


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