A confronto con Luisa Betti: il mestiere della giornalista e la scelta di dire la propria

0 0

di Silvia Del Vecchio –

Qualche giorno fa ho avuto il piacere di conoscere Luisa Betti (nella foto), giornalista, una donna preparata e simpatica. Ci siamo conosciute al Convegno “Convenzione di Istanbul e Media” a metà settembre al senato, e da lì è nata la volontà di fare una chiacchierata per una intervista informale sulla situazione delle donne in Italia. Un dialogo incentrato anche sul rapporto donne e comunicazione, dalla parte di chi ci lavora dentro. Luisa fa parte della Rete GIULIA, la rete di giornaliste italiane nata nel 2011 con l’obiettivo di proporre una modalità comunicativa più attenta alle donne sia nel linguaggio sia nei contenuti, e attiva nel proporre una visione dell’informazione globale e dinamica. Luisa si occupa di violenza sulle donne, ed è anche grazie a lei e al suo impegno costante, se oggi la questione del femminicidio ha una rilevanza pubblica nazionale. Concludo con un ringraziamento a Luisa per la sua disponibilità e le rivolgo un invito. La invito a continuare a fare la giornalista così bene come fatto sino ad oggi. Che continui a sollecitare me, se stessa e le altre, ad uscire di casa e a ricominciare dagli/le altri/e per fare la società dove viviamo, dove siamo anche noi gli/le artefici dei processi economici, sociali, politici, civili. Non ci sono altre strade da prendere, se non quella che porta a noi e alle nostre storie, perché la consapevolezza del mio corpo e di chi sono non può che iniziare dal mio sguardo attivo sulle cose che accadono e che si raccontano in giro nel mondo. Buon lavoro.

Ciao Luisa. Inizio chiedendoti di dirmi qualcosa di te e del tuo lavoro.
Sono una giornalista, mi occupo di diritti e discriminazioni su donne e minori in Italia e nel mondo. Tanti anni fa ho cominciato scrivendo per “Leggendaria”, l’inserto della rivista “Noi Donne”, poi sono diventata giornalista professionista, ho lavorato per la carta stampata, televisione, web, e oggi lavoro con testate italiane e straniere, e scrivo per il “Manifesto” ma soprattutto gestisco il blog “Antiviolenza” del giornale online che ha avuto molto successo da quando è nato. Oltre a scrivere, ho fatto anche una bella video inchiesta qualche anno fa sui bambini in carcere con le mamme che chiamava appunto “Il carcere sotto i tre anni di vita”, trasmesso da Rainews24 l’8 marzo del 2010, perché insieme alla scrittura un’altra forma di comunicazione importante, secondo me, è l’immagine che fa informazione, un’informazione a volte più diretta e immediata. In tutti questi passaggi tra un luogo e un altro di lavoro, ho imparato il mestiere della comunicazione e la sua capacità di influire sulla conoscenza e la cultura di un paese. Ma ho dovuto fare i conti con una serie di meccanismi di discriminazione di genere e di stereotipi radicati anche nel nostro ambiente. Potrei dirti che, benché siano stati numerosi i miei datori di lavoro, ho riscontrato molte similitudini nell’atteggiamento discriminatorio verso le donne.

In che senso?
Nel senso che quando sei una donna capace, autonoma e cosciente delle proprie scelte, non è semplice. Possono innescarsi dinamiche pericolose. Da una parte, la difficoltà di affermarsi all’interno di relazioni rigide e di equilibri preordinati. Dall’altra, l’accesso alla carriera seguendo la via usuale e stereotipata della donna carina e accondiscendente che sta lì in attesa dell’occasione della vita che, quasi sempre, è nelle mani dell’uomo di potere di turno. Avendo toccato con mano, mio malgrado, questa pressione del potere maschile anche dentro le redazioni, a un certo punto, oltre a dire no, ho deciso che avrei combattuto quella discriminazione anche con il mio lavoro, ed è per questo che a un certo punto ho cominciato ad approfondire, decidendo di farlo qui in Italia, non per masochismo o ingenuità ma, al contrario, perché voglio contribuire a cambiare il mio Paese. E anche il lavoro in associazioni come Articolo 21 e GIULIA, è legato questo percorso in condivisione con altre e altri che fanno questo mestiere.

E GIULIA cosa rappresenta per te? Quando e perché è nata?
GIULIA è una rete di giornaliste nata 2 anni fa sulla spinta di ciò che accadeva in Italia da 20 anni e con Berlusconi. Nasce come reazione al degrado del sistema dell’informazione, e soprattutto come presa di responsabilità delle giornaliste che si erano stufate sia di essere discriminate nelle redazioni, sia di dover assistere a una declinazione al femminile fin troppo stereotipata. Quando le giornaliste hanno cominciato a incontrarsi, i temi che premevano di più erano il lavoro, la precarietà, la rappresentanza, e c’era un entusiasmo collettivo e vivace. Lì ho proposto un tavolo sulla violenza contro le donne e ho pronunciato la parola femminicidio, un termine che pochissime conoscevano nella sua complessità. Dico questo perché anche adesso che è stato sdoganato, c’è tutt’ora una certa diffidenza nei riguardi della definizione che invece è un termine internazionale e che comprende tutte le violenze che una donna può subire nell’arco di una vita, e non solo l’uccisione di una donna in quanto tale, come ancora erroneamente fa molta parte dell’informazione e anche nelle istituzioni. Ho lavorato con costanza sul femminicidio, e in GIULIA ho cercato di coinvolgere le altre attraverso una condivisione della motivazione che è un elemento di forza nei progetti, politici o culturali, e in quanto rappresenta un punto d’avvio per il riconoscimento reciproco. La sfida è riuscita perché le giornaliste hanno continuato a spingere su questi punti sui luoghi di lavoro e nelle redazioni, cercando di ripensare il modello comunicativo predominante. Ed è per questo lavoro se oggi il termine femminicidio si usa ovunque, e soprattutto se si parla di violenza sulle donne in Italia.

Quindi GIULIA nasce con la volontà di irrompere dentro questo quadro stagnante, di rimuovere gli architravi delle disparità di genere, dei rapporti forza prima di tutto dove la notizia si fa?
Sì. Con GIULIA abbiamo voluto cominciare a prenderci lo spazio per dire e fare delle cose che non riguardassero soltanto la nostra attività giornalistica. Siamo coscienti che c’è bisogno di partecipazione e che le persone vogliono decidere, avere il potere di scegliere per sé. Io credo sia prioritario ricostruire un tessuto comune. Questa è la nostra sfida nel presente. Dagli anni ’70 in poi in Italia ci sono state molte esperienze di donne impegnate in diversi modi sul versante politico, sociale e culturale, proponendo anche elaborazioni di pensiero e di sapere alternativo. Poi però la realtà è anche tornata indietro con una pericolosa mistura tra diritti acquisiti e il rilancio di stereotipi femminili mai cancellati dalla cultura macista italiana. Modelli maschilisti che il berlusconismo ha saputo usare, producendo l’esasperazione degli aspetti più deleteri. Un dato pericoloso che ha inciso sulla vita delle donne tutte.

Cos’è il potere per te? Pensi che oggi le donne abbiano il coraggio di riprenderselo? Le donne che hai incontrato ti sembrano rispondere a questa domanda?
Per me la priorità è il bene comune, lo stare bene di tutti, una vita dignitosa e a proprio agio per uomini e donne: un obiettivo che bisognerebbe tenere sempre in mente quando si agisce, soprattutto quando si ricoprono ruoli decisionali. Un coraggio che può portare a toccare interessi e privilegi che per la maggior parte rimangono intoccabili anche in un momento di crisi come questo, e ciò fa ben capire quanto non sia sufficiente la buona volontà di alcuni o alcune, anche se ricoprono posti apicali. Certo le donne hanno un ruolo importante perché sono le prime a rimetterci in una crisi economica globale dove i primi diritti che vengono intaccati sono i nostri. Diritti che vengono negati e cancellati con la scusa “culturale” della donna “angelo del focolare”, che così viene ricacciata in casa senza alcuna voce e a svolgere un lavoro gratis per lo Stato, a non reclamare lavoro e quindi stipendi equiparati, a non pretendere di decidere sulla propria maternità e sessualità, a non insistere su una vera spartizione del potere, con un’accentuazione della discriminazione di genere in tutti gli ambiti che invece di essere combattuta, viene rilanciata e sostenuta. Ma c’è poi anche un altro grande problema da mettere sul piatto, e qui vengo alla domanda, e cioè che non sempre le donne sono al fianco delle altre donne, cioè non tutte le donne combattono o lavorano per attuare politiche a vantaggio delle donne stesse, e talvolta sono le prime ad opporsi, o a non capire, dimostrando un’omologazione al potere maschile. Un modo che dà a loro l’illusione di accedere al potere stesso, che rimane invece un potere patriarcale, al massimo paternalista, nei confronti delle donne. Dico senza peli sulla lingua che alcune donne sono più misogine degli uomini e anche nei casi in cui cercano di occuparsi del loro “genere”, queste donne mostrano che i loro interlocutori unici sono gli uomini, e che le altre donne, le loro simili, sono solo oggetti da difendere, tutelare, proteggere, o anche da giudicare con pregiudizio, come se loro non ne facessero parte. Questa, oltre a essere una grande illusione, è anche una grande rimozione, perché scaturisce da un complesso di genere per cui noi donne abbiamo sempre il bisogno di distinguerci, di sentirci apprezzate e riconosciute pubblicamente, di essere le prime della classe in qualunque ambito, ma soprattutto per dimostrare al potere maschile che siamo interlocutrici credibili. Un trabocchetto che porta molte donne a combattersi tra loro, fino all’ultimo sangue come se il nemico fosse lì, mentre nella realtà “lavora” altrove. Si parla molto, per esempio, di saper gestire il conflitto o di relazionarsi nelle differenze, quando invece spesso e in moltissimi ambiti, sembra di assistere a una lotta tutta femminile per la conquista della coroncina da miss con metodi che alle volte sembrano medioevali.

E lo scontro generazionale esiste?
In questa direzione si innesta anche lo scontro generazionale tra donne, e questo lo sto vedendo in molti ambiti, perché c’è una questione tuttora aperta che riguarda il rapporto tra le donne over 50 e le giovani, ma soprattutto le over 50 che detengono una certa egemonia e le donne che sono sulla quarantina e che hanno vissuto sulla loro pelle e per prime l’arretramento di un Paese in materia di diritti. Quelle che ancora oggi sono precarie, quelle che non hanno potuto fare una consapevole scelta di maternità, quelle tagliate fuori e che si sono dovute adattare “ai tempi”, ma che allo stesso tempo non mollano e non hanno nessuna intenzione di farsi da parte, e che quindi sono più vicine alle giovani per linguaggio e visione della realtà. Anche lì c’è una sclerotizzazione del potere, un potere femminile ristretto a quegli ambiti, che si manifesta in modi individualistici e personali, e che non solo non smuove in maniera determinante il contesto globale ma va nella direzione opposta. Detto ciò, sono convinta che solo unendoci su obiettivi chiari e collettivizzando i contenuti e le pratiche, e soprattutto senza gerarchie prese in prestito dai modelli maschili, noi possiamo vincere, perché quello che conta è cambiare le cose nella pratica, cambiare la condizione reale delle donne in questo Paese e nel mondo. Il potere però è anche affermare che si è femministe senza timori di ripercussioni, senza giudizio, e con una trasversalità totale, sia senza sentirsi dire tu non lo sei abbastanza o sei troppo giovane per dirlo, ma anche senza la solita tiritera per cui se sei femminista allora sei settoriale, passata. Lo scorso 8 marzo, sono stata invitata dal Comune di Parigi a un tavolo di discussione internazionale su Donne e potere. Bene, le francesi che ricoprivano ruoli istituzionali si definivano, nei loro interventi, femministe rivendicando il sapere e la pratica femminista come parte integrante della loro politica. Certo, parliamo di una città dove gli eventi dedicati all’8 marzo si sono dispiegati in un mese, e non come a Roma dove è stato acceso il Colosseo, insomma un’altra testa.

Quanto agisce sulla situazione delle donne la fase di crisi attuale?
Molto. Anche perché, come ho già detto, agisce in prima battuta sulle fasce più esposte, quindi donne e bambini/e. Guarda cosa accade in Grecia. In Grecia per partorire devi pagare una quota che si aggira intorno ai 1.000 euro, e se non puoi l’ospedale ti respinge anche se sei in fase di travaglio. Per questo molte donne si presentano al Pronto Soccorso con il “parto aperto”, ovvero in fase travaglio avanzata e con un’apertura di vari centimetri, così da poter comunque partorire lì e subito, per avere un minimo di assistenza. Non se ne parla ma l’Italia sta andando in quella direzione, e cioè verso la cancellazione dello stato di diritto, e le prime a essere toccate da questo azzeramento sono le donne e i giovani, per non parlare dei bambine e delle bambine. Oggi in Italia sembra diventato impossibile interrompere una gravidanza, quasi impensabile essere una madre single, sempre più improbabile accedere al lavoro senza subire in silenzio le avance del proprio datore maschio, e tutto questo con un bombardamento di stereotipi che ti dicono come dovresti essere e quanto sei sbagliata se non sei così. Ora in Italia, ma anche nel mondo, non è solo a rischio la libertà delle donne ma anche la sopravvivenza come soggetti pensanti e desideranti.

Rispetto alla difficoltà che registri, ti chiedo se così come è posta la battaglia contro la violenza, ti sembri efficace?
Assolutamente no, e anche sul decreto sul femminicidio appena approvato alle camere per la conversione in legge, sono molto critica. Sia perché è scandaloso introdurre le norme contro la violenza sulle donne in un pacchetto sicurezza in cui si è votato l’esercito in Val di Susa, la militarizzazione del territorio delle grandi opere, il commissariamento delle province, i furti di rame, sia perché questa è una violenza che non si contrasta con l’inasprimento sul piano giuridico – penale, soprattutto nella forma in cui è passata. Una forma che nella realtà restringe la prospettiva data con la ratifica da parte dell’Italia della Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne e la violenza domestica, in molti punti. Faccio qualche esempio: descrivere la violenza domestica come “atti non episodici” quando Istanbul declina in maniera molto più ampia questa violenza; ridurre la libertà di revocare la denuncia da parte della donna senza mettere mano alle vere inefficienze dello Stato che spesso rivittimizza la donna, esponendola così a un traballante percorso giuridico da cui non si potrà sottrarre, se vuole; dichiarare che le donne sono “soggetti deboli da dover difendere da se stesse”, come detto dalla presidente della Commissione giustizia in aula, o che bisogna “mettere le donne in sicurezza”, come pronunciato da alcune parlamentari del PD appellandosi ai diritti umani, significa non solo ridurre a un’azione paternalistica che non serve alle donne, ma anche non aver capito in che direzione va la letteratura internazionale a proposito di diritti umani.

In che senso? Puoi spiegare meglio?
La Convenzione di Istanbul, ma anche le Raccomandazioni dell’Onu fatte e rivolte specificatamente all’Italia, sono state chiare nel dire che alla base della violenza contro le donne ci sta la discriminazione di genere in tutte le sue forme, e che per combattere questa violenza bisogna avere una uguaglianza de jure e de facto che qui non c’è. Come disse Violeta Neubauer, referente del comitato Cedaw dell’Onu che era qui due anni fa, “se non si combattono gli stereotipi in Italia, non si combatte neanche la violenza”. L’approccio a livello internazionale sul femminicidio, inteso come tutte le violenze che una donna può subire nell’arco di una vita e non solo la sua uccisione, è ampio e inverso da quello italiano, tuttora invece incentrato sulla vittimizzazione delle donne. All’Onu non si parla più di vittima, la donna che ha vissuto una situazione di violenza è una “sopravvissuta” perché rimane agente, è un soggetto e non un oggetto da mettere sotto una campana di vetro. In Italia c’è molta ignoranza su questi punti, o forse fa comodo non andargli a vedere perché scardinano quella che è l’istituzione chiave in questo Paese, e cioè la famiglia in cui il ruolo della donna è definito rigidamente al di là del colore politico. Per questo la forza delle donne consapevoli deve essere messa in campo tutta e in maniera determinata. Quest’anno la 57a CSW (Commission on the Status of Women – UN Women) ha siglato una carta storica contro la violenza su donne, ragazze e bambine, malgrado l’opposizione di alcuni paesi, come Egitto, Iran, Sudan, Arabia Saudita, Qatar, Honduras, su ciò che riguardava la violenza in famiglia, e la matrice culturale e religiosa di alcune violenze, e malgrado anche la contrarietà di Russia e del Vaticano sul diritto alla salute riproduttiva. Una vittoria portata a buon fine con 132 paesi firmatari, grazie alla forza e al coraggio di queste donne che hanno scelto di sostenere il progetto anche contro il parere del Paese rappresentato, come l’egiziana Mervat Tallawy, che ha replicato ai Fratelli Musulmani, firmando la carta e dichiarando che “La solidarietà internazionale è necessaria per dare i poteri alle donne e prevenire quest’aria di repressione”. Una cosa che mi piacerebbe vedere in Italia.

Quindi secondo te il decreto contro il femminicidio appena passato in Italia in che prospettiva si muove?
E’ da tempo che molte donne che lavorano sulla violenza ripetono che questa violenza è un problema strutturale e che, come tale, non va risolto con la scelta emergenziale come ha fatto questo decreto. E’ assolutamente prioritario invece investire in un’azione di prevenzione, e poi anche di tutela, ma attraverso una rete efficiente e preparata a tutti i livelli, e senza dimenticare mai che la donna non è vittima ma soggetto attivo, da quando racconta la sua storia a quando cerca di uscirne. In questo decreto manca la coerenza e l’efficacia operativa, soprattutto perché devia dalle raccomandazioni Onu, in modo particolare da quelle della special rapporteur Rashida Manjoo, che aveva prima di tutto chiesto una verifica sull’inefficienza dello stato italiano, da cui poi si sarebbe potuti partire per agire concretamente in quello che qui manca. In Italia invece, siccome non si vuole affrontare veramente la questione, si è proceduti dalla fine, al contrario. E addirittura si è preferito fare un decreto quando invece il parlamento stesso, anche sotto la forte spinta della società di quelle donne che stanno combattendo sul campo la violenza, aveva avviato un dialogo costruttivo a partire dalla Convenzione di Istanbul che, ripeto, è molto più avanti di quello che si sta facendo qui. Quel dialogo, quella riflessione, è stata spezzata da un’azione che ha riportato il Paese indietro. Se poi vogliamo dirla tutta, era quello che aveva iniziato a fare la ministra Idem che andava in quella giusta direzione, perché una ministra che sta sette ore ad ascoltare le associazioni prendendo appunti, in Italia non si era mai vista: malgrado l’ascolto delle Ong da parte delle istituzioni, è la prima cosa che si fa in tutti i paesi civili degni di questo nome. Eppure anche questo dialogo è stato interrotto, quindi la risposta è che manca una volontà seria, trasparente e sincera a risolvere veramente la violenza sulle donne, che qui in Italia è per l’80% violenza domestica e quindi fatta in relazioni intime. Un dato che chiarisce cosa bisogna andare a toccare per risolverla.

Le giovani generazioni, anzi le giovanissime, sono interessate secondo te al tema delle violenza?
Mi è capitato di andare nelle scuole per parlare di violenza sulle donne, e posso dirti dipende anche da come poni la questione. Gli stereotipi e la violenza in famiglia sono temi che toccano ragazzi e ragazze da vicino, dal fatto che non possono uscire la sera come i loro fratelli, al fatto che molti adolescenti subiscono e/o assistono a violenza in ambito familiare. Una violenza assistita, quella dei minori, che crea danni enormi e che non può essere considerata solo come un aggravante nei maltrattamenti, come dichiara questo decreto, ma che deve essere allargata a tutte le violenze in ambito relazionale e intimo, e che coinvolge il minore come persona lesa in maniera diretta, come descritto dalla Convenzione di Istanbul. Ecco, se cominci a parlare di quello che li riguarda direttamente, l’attenzione sale eccome, e soprattutto chiedono dove bisogna andare, perché i minorenni che subiscono violenza in famiglia sono davvero le persone più esposte a rivittimizzazione e tante volte sono usati anche come arma di ricatto da parte del genitore violento in fase di separazione. Questo gli adolescenti, figuriamoci i bambini e le bambine. Quello è proprio un tabù in Italia.

http://blog.ilmanifesto.it/antiviolenza/2013/10/15/felici-incontri-tra-donne/


Iscriviti alla Newsletter di Articolo21