“Il giudice dimenticato” – di Nicola Tranfaglia, Teresa de Palma

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1. La famiglia, i suoi studi e la carriera in magistratura.

Bruno Caccia era nato il 16 novembre 1917 a Cuneo, dove il padre era presidente del Tribunale, in una famiglia con una lunga tradizione in magistratura che risale ai primi dell’800 (preceduta dalla settecenteca tradizione notarile), una tradizione che aveva avuto il suo esponente più illustre nel dottor Giuseppe Caccia, procuratore generale della Corte di  Cassazione.Aveva compiuto gli studi a Cuneo fino al ginnasio e, seguendo gli spostamenti del padre magistrato, li aveva proseguiti a La Spezia, conseguendo quindi  la maturità liceale ad Asti con una eccellente valutazione.Iscrittosi alla facoltà di Giurisprudenza, aveva conseguito la laurea in Giurisprudenza  magna cum laude nel 1939 con il  professor Giuseppe Allara, a lungo Rettore Magnifico  dell’Università subalpina, e nel 1940 si era laureato anche  in Scienze politiche.Nel 1941 aveva sostenuto e vinto il concorso per entrare in magistratura, ed era entrato alla procura di Torino dapprima come uditore, poi come sostituto procuratore. A Torino era rimasto fino al 1964, quando era passato ad Aosta come procuratore della Repubblica. Nel 1967 era tornato a Torino, come sostituto alla procura generale, e nel 1980 era andato a presiedere la procura della Repubblica in sostituzione del dottor La Marca andato in pensione.Nel 1953 aveva sposato la professoressa Carla Ferrari e la coppia aveva avuto tre figli, Guido, Paola e Maria Cristina.Caccia aveva promosso e seguito molte importanti inchieste criminali. Nel 1973 aveva sostenuto l’accusa nel processo d’appello per l’omicidio a scopo di rapina dell’orefice Giuseppe Baudino.Nel 1974 si era occupato, scegliendo il dottor Gian Carlo Caselli come giudice istruttore, del rapimento del magistrato genovese Mario Sossi.Come procuratore capo, aveva promosso l’inchiesta sullo scandalo delle tangenti delle giunte composte dal partito comunista e da quello socialista  nel comune di Torino e aveva seguito lo scandalo degli oli minerali, che aveva coinvolto petrolieri, funzionari e esponenti di punta del mondo politico e delle forze dell’ordine.
Si era quindi occupato della lotta al terrorismo, e, sotto la sua guida, la procura torinese aveva debellato la colonne torinesi di Brigate Rosse e Prima Linea, con la collaborazione dei primi grandi “pentiti” del terrorismo “rosso”, Patrizio Peci e Roberto Sandalo.Ridimensionata l’emergenza terroristica, aveva intensificato gli sforzi della procura nella lotta al traffico degli stupefacenti  e alla criminalità mafiosa presente nella regione piemontese  ed è proprio in questo  ambiente che maturerà all’inizio degli anni ottanta  la decisione di ucciderlo.

2. L’assassinio

Bruno Caccia viene ucciso la sera di domenica 26 giugno 1983, il giorno in cui si svolgono in Italia le elezioni politiche generali alle 23,35 mentre, uscito dalla sua abitazione di via Sommacampagna 9, a portare, sprovvisto di scorta,  a spasso il suo cane viene raggiunto da una serie di colpi di un fucile di precisione dall’autista al volonte dall’interno di una Fiat 128 con due uomini a bordo. Quindi, dopo i primi colpi, il secondo passeggero dell’automobile scende e a distanza ravvicinata spara altri colpi.Il procuratore viene immediatamente soccorso e trasportato al pronto soccorso dell’Ospedale delle Molinette ma vi giunge già morto.Viene subito fatto un identikit di uno dei killer che tuttavia si rivelerà   inservibile.Dieci minuti dopo giunge, attraverso un cittadino sollecitato a telefonare al quotidiano La Stampa, la prima rivendicazione che si qualifica a nome delle Brigate Rosse. A questa ne seguono altre tre, una alla sede milanese della Rai e due alle redazioni del Corriere della Sera e de Il Giornale d’Italia. Poichè in quei giorni sono in corso a Torino i processi alle colonne torinesi delle Brigate Rosse e di Prima Linea, la polizia procede immediatamente a perquisite le celle del carcere alla ricerca di qualche documento di preparazione dell’assassinio o di rivendicazione ma nulla viene ritrovato.Il giorno successivo viene trovata la Fiat 128 usata per l’agguato, chiusa a chiave e all’interno con una cartuccia di quelle sparate contro il procuratore. Si risale al proprietario dell’auto, Angelo Cartillone, già coinvolto in precedenza in un furto nella casa di campagna, a Ceresole d’Alba, del procuratore. Cartillone afferma che l’auto gli è stata rubata qualche giorno prima e viene arrestato per dichiarazioni reticenti ma subito dopo è scarcerato per mancanza di indizi contro di lui.Successivamente i terroristi detenuti durante i processi in corso negano di aver ucciso Caccia ed escludono anzi che il suo assassinio sia stato compiuto dall’una o dall’altra organizzazione di cui fanno parte. Un’altra rivendicazione viene avanzata dai terroristi di estrema destra dei NAR con una telefonata a La Stampa ma anche questa si rivela infondata come altri tentativi di collegare l’attentato all’inchiesta sul contrabbando di petroli o a quella sul riciclaggio di denaro sporco attraverso i casinò della regione piemontese.Soltanto un anno dopo, nel luglio 1984, alcuni componenti del clan mafioso dei catanesi e successivamente di quello ‘ndranghetista dei calabresi  presenti a Torino incominciano a parlare e finamente emergono elementi concreti e attendibili sull’assassinio del magistrato. I cinque processi  che si tengono in oltre dieci anni sulla morte di Bruno Caccia e che si concludono con il giudizio definitivo della Corte di Cassazione nel 1995 affermano nelle sentenze che il procuratore di Torino è stato ucciso con diciassette colpi di un fucile di precisione da sicari calabresi (dei quali non si conosce il nome) arrivati per qualche ora a Torino e subito ripartiti da dove erano venuti, su ordine di Domenico Belfiore, capo della cosca dell’ ‘ndrangheta  di Torino.A distanza di trent’anni i nomi degli esecutori sono ancora misteriosi nè si può stabilire se l’ordine è partito soltanto da Belfiore e dalla ‘ndrangheta a Torino o anche da altre organizzazioni mafiose o ancora da poteri occulti che con le sue inchieste aveva sfiorato. La motivazione dell’uccisione è chiara: Caccia è stato un magistrato inavvicinabile e deciso a combattere con la massima efficacia i crimini in tutte le forme.  


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