Risparmiateci un “maialinum”. Il caffè del 29 luglio

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da corradinomineo.it

Ci siamo. “Sentenza Berlusconi – 1. Tutto in un giorno”. Titola Il Giornale. “Vendetta, sarà caos, cicatrice profonda, frammentazione e guerre fratricide, assalto giudiziario, le toghe della Cassazione giocano col futuro del Paese”, titoli e articoli provano a scrivere su carta, con la schiuma alla bocca e le gambe che tremano, i fuochi d’artificio con sui si chiudeva Il Caimano di Nanni Moretti. Ahimè, le polveri si sono ormai bagnate. Così, quando Michaela Biancofiore prova a formulare la minaccia finale “200 di noi sono pronti a lasciare il Parlamento”, anche un osservatore distratto capirebbe che si tratta di un bluff senza carte in mano. Michaela si dimette, Napolitano costretto a sciogliere, gli italiani a votare di nuovo con la legge porcata? Scenario da farsa, più che da tragedia. Loro al seguito di un Capo interdetto dai pubblici uffici e condannato in via definitiva per truffa allo Stato, il Pd dispiaciuto perché Letta ha dovuto interrompere il suo lavoro e costretto a riprendere i vecchi slogan anti B, Grillo a promettere di svuotare il mare con il cucchiaino del caffè. I mercati che ne approfittano per fare un po’ di soldi. I giornali del mondo intero che ci chiedono “ma davvero volete un ladro al comando?”. Chi vincerebbe, secondo voi, chi incasserebbe l’osceno premio di maggioranza inventato da Calderoli per Silvio e Umberto, allora alleati?

“Loro”, non credo proprio. E anche se lo strappassero alla Camera resterebbero minoranza in Senato e senza la possibilità di allearsi. E lo sanno. Così Repubblica parla di “un summit segreto da Berlusconi” e di un “diktat di Gianni Letta e Confalonieri” per stabilire che “comunque il governo non può cadere”. Sul Corriere Giannelli, racconta la notte insonne di Enrico Letta che si fa tranquillizzare, al telefono, dalla zio Gianni. “Non ti preoccupare, ho sentito Silvio. In un momento come questo il governo non può cadere”. Poi aggiunge con crudeltà: “Lui dorme tranquillo”.

Dimenticavo. L’ex tesoriere, Sposetti fa titolo su molti giornali per aver previsto che, se condannano Berlusconi, salta il Pd. Mi permetto di interpretarlo, Ugo. Voleva dire (come peraltro fa anche Ilvo Diamanti, in un articolo sulle famose regole congressuali) che il Pd non è né carne né pesce. Un partito nato nel cono d’ombra di B, che ha provato a usare B come scorciatoia nell’illusione di poter un giorno governare da solo, ha cercato di sganciarsi, solo in ultimo, da una  subalternità ventennale (con Bersani e il “cambiamento”) e non ce l’ha fatta. Caduto Silvio è possibile che qualcuno del Pd torni a sinistra e altri riparino in una nuova Democrazia Cristiana, all’ombra di Angela Merkel. Ma l’orso ha ancora addosso la sua pelle.

È piuttosto un “retroscena” di Repubblica ad agitare i miei giorni d’estate. Non le notti, quando dormo nonostante il caldo di Roma. “Porcellum, ecco il piano del governo. Una riforma elettorale di garanzia se i partiti non trovano l’intesa”. E che c’è di male, non è forse quello che stiamo dicendo un po’ tutti, a sinistra: via la “porcata”, subito una legge elettorale che rimetta il birillo nelle mani di chi vota? Non è così, purtroppo. O almeno non sembra così, a leggere La Repubblica. Il Governo intenderebbe, infatti, introdurre una soglia di sbarramento più alta. Per far fuori SEL se non si allea, Ingroia se si ripresenta, Storace e Fratelli d’Italia, se non intendono più mangiare la biada del Cavaliere. Naturalmente resterebbe il premio di maggioranza, per giustificare la necessità di coalizzarsi. Solo che, per portarlo via, sarebbero necessari più voti di quanti non ne abbiano totalizzati i tre principali partiti nelle elezioni di  Marzo.

Tirando le somme, i parlamentari li sceglierebbero sempre Berlusconi, Grillo e Letta. Casaleggio consulterebbe, certo, il popolo dei 5 stesse registrato in rete. Il Pd indirebbe elezioni primarie per meglio dividere il bottino tra le cordate personali che si ostinano a chiamare correnti. Ma la musica (stonata) non cambierebbe. Resterebbero le coalizioni raccogliticce, con il loro candidato premier alla cui sorte impiccarsi, poi in Parlamento. Si reitererebbe la bugia secondo cui l’Italia è finita così in basso perché la Costituzione del 48 impedisce governi forti. E non perché i partiti non hanno le idee, la serietà, la forza di proporre una cura per il Paese.

Per favore, no. C’è un bene che conta di più di un’accorta politica economica e che ne è la condizione. Parlo del rapporto sentimentale tra eletti ed elettori, tra cittadini che pagano le tasse e politici che orientano la spesa pubblica. Per garantire che questo filo, già assai logorato, non si spezzi, serve una “clausola di garanzia” (una legge elettorale) che non sia e non sembri un imbroglio, un ennesimo artificio per garantirsi una maggioranza più comoda, per costringere i piccoli partiti  ad accettare la legge dei più grandi, per evitare che arrivino in Parlamento troppi radicali liberi.

Giachetti e Martino torneranno, nelle prossime ore, a riproporre il ritorno alla legge Mattarella. È, secondo me, una cattiva legge elettorale, ma è quella che avevamo prima dell’attuale, che è pessima. Prevede, purtroppo, il premio di maggioranza, ma elegge buona parte dei deputati e dei senatori in collegi uninominali. Marco Milanese, Nicole Minetti, i portaborse e amanti di questo o quel politico, non ce la farebbero mai nei collegi e, per arrivare in buca, li dovrebbero cooptare nel “listino”. Indecenza, almeno esplicita. Con il Mattarellum,  l’Ulivo vinse nel 1996 e governò 5 anni, ancorché con 3 diversi premier. Con quella legge, Berlusconi vinse e governò dal 2001 al 2006.

Oppure torniamo alla proporzionale con preferenza unica. Cioè al sistema della Prima Repubblica, corretto dal primo referendum dopo mani pulite. In Parlamento nessuno potrebbe governare senza allearsi. Arriverebbero al Senato e alla Camera parecchi notabili locali ma anche qualche personalità nota e rispettata. Meglio dei portaborse e dei famigli. Ma soprattutto dovremmo finalmente ammettere che il problema dell’Italia è politico. Che il problema consiste nel declino di Berlusconi, nell’incapacità del Pd di uscire dal cono d’ombra in cui l’ha cacciato la subalternità a Berlusconi, nel primitivismo parolaio di Grillo. Una corretta diagnosi promette già la terapia.


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