Ius Soli: “Non è solo latinetto
da usare come clava ideologica”

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Alberto Guariso è l’avvocato che i leghisti non avrebbero mai voluto incontrare. Insieme alle associazione Avvocati per Niente e Asgi è stato infatti l’autore di tutte le vittorie giudiziarie ai danni delle varie iniziative discriminatorie tentate dalla Lega: all’inizio furono i bonus bebé limitati agli italiani poi arrivarono le delibere per “salvaguardare la civiltà occidentale”, premi scuola per studenti italiani, diritto alla casa e molte altre scelte amministrative, sempre bocciate dai tribunali. Ora che una nuova discussione si è aperta rispetto allo ius soli Guariso chiarisce subito: “Sarebbe necessario evitare di usare il latinetto come clava ideologica e cominciare a ragionare su qualche contenuto. Ma il passaggio evidentemente non è semplice se persino una persona avveduta come il presidente del Senato si è fatto trascinare nella bagarre sentendosi in dovere di mettere in guardia contro il rischio che lo ius soli scateni l’arrivo di orde di donne straniere pronte a partorire non appena uscite dall’aeroporto”.

Iniziamo dalla situazione attuale
Anche i meno esperti della materia sanno che persino nel nostro sgangherato sistema esiste una sorta di ius soli: lo straniero che è nato in Italia e vi ha soggiornato continuativamente acquista la cittadinanza (e trattasi di diritto soggettivo vero e proprio, senza possibilità di valutazione di-screzionale da parte della pubblica amministrazione) presentando una domanda entro 12 mesi dal compimento del diciottesimo anno.
Le controindicazioni di tale sistema – contenuto nella L. 91/92 – sono evidenti a tutti: il termine di decadenza per la domanda è troppo breve e molti stranieri non la presentano, perdendo cosi definitivamente questa opportunità; il periodo di permanenza continuativa richiesto è troppo lungo; il requisito della “residenza legale senza interruzioni” per 18 anni apre infiniti contenziosi relativi a eventuali brevi allontanamenti o a situazioni temporaneamente irregolari dei genitori (pensiamo alle centinaia di migliaia di stranieri destinatari delle varie sanatorie il cui figlio è nato prima della regolarizzazione). Dunque un sistema di labilissimo ius soli cervellotico e irrazionale, che infatti non vige in nessun altro paese europeo.

Dal suo punto di vista da dove bisognerebbe iniziare a trattare l’argomento?
Fermo il riconoscimento di un diritto per i nati in Italia, si tratta di capire quali requisiti possono essere affiancati a quello della nascita sul territorio nazionale per garantire che l’evento non sia casuale, ma si inserisca almeno come ipotesi in un progetto di radicamento all’interno della co-munità nazionale.

Ad esempio?
Le alternative sono diverse e – a conferma di quanto sia assurda la contrapposizione delle formule – sono in parte compatibili l’una con l’altra.
Una prima ipotesi è quella di tenere come riferimento la condizione dell’interessato (cioè del nato in Italia) e di riconoscergli la cittadinanza automaticamente (o mediante semplice dichiarazione) condizionando l’attribuzione soltanto alla durata della residenza nel paese: ad es. in Francia il nato nel paese acquisisce la cittadinanza automaticamente a 16 o 18 anni alla sola condizione di aver risieduto nel paese per 5 anni, anche discontinui; nel Regno Unito la acquisisce a condizione che vi abbia soggiornato per almeno 10 anni; mentre in Spagna basta un anno di residenza e l’opzione può essere formulata, per conto del minore, dai genitori, a qualunque età.
Una seconda strada è invece quella di spostare il riferimento sulla condizione dei genitori: in questa ipotesi sarebbe cittadino italiano per nascita colui che nasce nel territorio della Repubblica da genitori stranieri dei quali uno sia legalmente soggiornante da un determinato periodo.
Quest’ultima è la scelta che a me pare più opportuna e che è contenuta anche nel progetto di legge di iniziativa popolare lanciato dalla campagna “Italia sono anch’io” che fa riferimento al soggiorno legale dei genitori per almeno un anno. Naturalmente, di questo termine minimo si potrà discutere. La Germania, ad esempio, richiede ai genitori 8 anni di residenza legale e il diritto di soggiorno permanente, mentre il Regno Unito richiede un permesso di soggiorno a tempo indeterminato (che in Europa si acquisisce, in forza della direttiva 2003/109, dopo 5 anni di residenza).

Riguardo ai genitori?
Oltre al requisito della durata di soggiorno dei genitori altri se ne possono e debbono affiancare, sempre con riferimento ai minori. Ragionevole appare ad es. prevede una sorta di “ius sanguinis sopravvenuto”, nel senso che il genitore che diviene cittadino estende automaticamente il proprio status al figlio convivente (come avviene in Francia); e ancora più importante è il canale già presente in altri paesi europei (Olanda, Spagna) e volto a stabilizzare agevolmente e senza requisiti le “terze generazioni” : verrebbe cioè attribuita la cittadinanza per nascita ai figli di stranieri a loro volta nati in Italia anche se non cittadini italiani, indipendentemente da qualsiasi requisito di residenza; e si tratterebbe, in Italia, di una norma di grande importanza viste le difficoltà che abbiamo sin qui frapposto alle seconde generazioni nel percorso verso la cittadinanza.

E sulla questione dei “non-nati” in Italia?
Il riferimento potrebbe essere la fissazione di una età minima di ingresso che consenta condizioni più agevoli rispetto a chi fa ingresso da adulto, ma il criterio più condiviso e più logico è piuttosto quello della partecipazione a un ciclo scolastico, restando però da decidere a quale ciclo si voglia fare riferimento: la citata proposta di legge di iniziativa popolare consente ipotesi alternative, nel senso che sarebbe sufficiente o la scuola primaria, o la scuola secondaria di primo grado (le medie) o la scuola superiore o quella professionale.
Anche in questo caso, il requisito potrà essere eventualmente di diversa entità e comprendere più cicli, ma certamente non potrebbe coprire l’intero ciclo della scuola dell’obbligo, dai 6 ai 18 anni, che relegherebbe questo canale di accesso alla cittadinanza in un ambito del tutto margina-le.

C’è dell’altro?
Non va dimenticato che al di fuori delle questioni riguardanti le nuove generazioni, restano una miriade di questioni che prescindono totalmente dalla diatriba ius soli/ius sanguinis, ma che sono di pari importanza, se non altro perché – come dimostra l’esperienza di altri paesi – la soluzione complessiva deve essere frutto di un delicato equilibrio tra i diversi canali di accesso alla cittadinanza, sicché nessuno può essere considerato isolatamente. Potrebbe essere riconsiderato il periodo minimo necessario all’acquisizione della cittadinanza dopo matrimonio con cittadino italiano, elevato da sei mesi a due anni dal “pacchetto sicurezza” del 2009 (peraltro anche gli altri paesi europei, Spagna esclusa, si attengono a limiti non inferiori ai due anni); ma soprattutto sarà necessario mettere mano alla cittadinanza per naturalizzazione, riducendo i requisiti di legale residenza, che sono attualmente di 10 anni per l’extracomunitario e di cinque anni per il comunitario, l’apolide o il rifugiato politico.

E sulle “verifiche” del livello di integrazione?
Il punto è evidentemente delicatissimo perché attiene alla ampiezza del patto sociale, che non deve essere così invasivo da non poter accogliere le differenti identità, ma neppure tale da rendere l’adesione al patto civico un fatto meramente burocratico, specie in un contesto come quello Italiano dove il livello di condivisione di valori comuni appare, anche tra i vecchi cittadini, ampiamente al di sotto della soglia di allarme.


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