Democrazia del 50? Sì, se il partito c’è

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C’è voluta la buona memoria del prof. Alimonte, che a Otto e mezzo ha discusso con la nostra Chiara Geloni, direttrice di Youdem, e col direttore del Giornale sui risultati delle amministrative, per tappare la bocca a tutti quelli che “Marino vince ma non trionfa” (perché ha votato il 44,9 per cento dei romani). Il sindaco di Londra Boris Johnson è stato eletto due volte col 33 per cento dei votanti. E il sindaco di New York Michael Bloomberg due volte anche lui con una partecipazione del 33-34 per cento degli elettori. Per non dire del primo turno di Hollande alle presidenziali in Francia. A chi viene, come noi, dai tempi plebiscitari di De Gasperi e Togliatti, dagli anni del terrorismo, di Moro, di Berlinguer e dell’unità nazionale, dallo scontro fra la gioiosa macchina da guerra di Occhetto e i fescennini di Berlusconi, non è che la cosa ricordata da Alimonte dia un piacere particolare. C’eravamo assuefatti a quota 90. Ma, se è vero che in Inghilterra e in Usa si vota poco perché – si diceva – il consenso ai governanti è diffuso e gli elettori attivi sono solo la punta dell’iceberg del consenso, come mai quel fenomeno da noi non si chiama consenso ma disaffezione?

Perché come democratici siamo più giovani degli altri, si dice. Perché i popoli hanno modi diversi di esprimersi. Infine perché la disaffezione in Italia, che oggi si manifesta come sfiducia in alcuni partiti, è malattia congenita con la quale il paese è nato: nato non da una rivoluzione democratica di massa, come l’America o la Francia, ma da una guerra regia, coperta di liberalismo minoritario col quale resistette 60 anni come struttura, ma crollò alla prima spallata di massa. Cambiammo spartito con la repubblica, più per timore (o speranza) di essere ingoiati dall’orso con la stella rossa che non per riconversione democratica di quello che De Felice aveva diagnosticato  “consenso”al fascismo sociale e imperiale. Crollati poi i partiti restistenziali, tutti i tentativi di dare al paese un volto nuovo  dileguarono. Prima il berlusconismo, col suo andamento carsico, ma sempre corrotto e corruttore; poi il grillismo. Entrambi dal fascismo ereditavano, oltre il culto per il Capo, l’autoritarismo affaristico il primo e la commedia dell’arte il secondo. Per carità, anche i cugini francesi, che ci hanno insegnato rivoluzione, democrazia, costituzionalismo continentale, liberalismo democratico, laicità delle istituzioni e delle leggi, si sono votati al lepenismo per contestare la repubblica post-gollista divenuta mediocre. Ma ne hanno quasi nullificato il consenso di massa con meccanismi elettorali ad hoc. Beh, per una volta, domenica e lunedì, abbiamo fatto di meglio:  abbiamo battuto berlusconismo e grillismo col voto, sconfiggendo il primo e polverizzando il secondo.

Può anche darsi, come sostengono giornaloni , tg e talk show, che berlusconismo e grillismo crollino alle amministrative perché entrambi privi, sul “territorio”, dei loro carismatici leader e per mancanza di presenze diffuse, adeguate alla competizione. Ma non è un’attenuante, è una piaga che denuncia quanto i boss snobbino la democrazia. Che nasce dal basso e nel basso, come le piante. Poi tronco e rami salgono. La democrazia è incompatibile coi partiti che hanno capi carismatici che risolvono ogni questione nel totem del loro personalismo e diffidano dei “collettivi” maturi. Di più,  la mancanza di radicamento sul territorio equivale a disinteresse da parte dei califfi e dei loro cadì per il “territorio” del califfato. Il quale accetta il cadì locale per il periodo utile a servirsene, ma lo rifiuta nel confronto con chi sul territorio c’è sempre ed è organizzato per amministrarlo. Sia o no in sintonia col vento della politica nazionale che cambia. Guarda caso, i democratici, dopo la mezza vittoria o mezza sconfitta del 26-27 febbraio, hanno tolto alla destra il Lazio, poi il Friuli, poi il Molise, e domenica Roma, cancellando la presenza amministrativa del Pdl dal Nord alla Sicilia e ridicolizzando il Movimento5Stelle lasciato a Pomezia. Da dove ricominceremo “la nostra marcia lenta ma inesorabile”, ha scritto Grillo.  Meglio di Mussolini dopo la disfatta in Libia.

Dunque, democrazia matura quella del 50 per cento? Diciamo che può diventarlo, se, negli anni che verranno, la dialettica interna al Pd – unico partito vero esistente – non tracimerà mai fuori degli argini di una corretta gara per la leadership, necessaria a rinnovare i gruppi dirigenti. E soprattutto se la presenza e il coinvolgimento del “territorio”, oggi solo accettabili,  saranno sempre è più vigili.


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