Antisemitismo e omofobia: l’altra faccia della Roma cattolica

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Il dèmone della violenza si è impadronita di Roma, della Capitale del cattolicesimo, sradicando la tradizione di tolleranza che da sempre la contraddistingueva. Le aggressioni a Campo de’ Fiori di tifosi romanisti e laziali contro i supporter della squadra inglese del Tottenham (il quartiere ebraico di Londra, dove allo stadio spesso vengono esposte le stelle di David), davanti alla statua di Giordano Bruno, filosofo “eretico”, bruciato vivo dall’Inquisizione per le sue opere che anelavano alla libertà di pensiero, sono qualcosa di più di uno scontro tra tifoserie opposte: sono il campanello di allarme che l’antisemitismo, figlio dell’incultura e dell’antistoricità, si sta sviluppando. E con esso si sta diffondendo una tendenza sanguinaria all’omofobia, a colpire i “diversi”, gay veri o presunti e trans, con aggressioni in alcuni quartieri o dentro le aule omertose di qualche liceo: un ragazzo inglese accoltellato, rimasto per giorni tra la vita e la morte, e un giovane studente romano, spinto al suicidio, vessato dalla prepotenza ingiuriosa di altri liceali. Questi i fatti più recenti, oltre ai soliti, ripetuti cori antiebraici della tifoseria laziale all’Olimpico.

Dove sono le istituzioni che dovrebbero garantire a tutti, di qualsiasi religione e credo comportamentale, la serenità di vivere in libertà, di muoversi ovunque senza doversi guardare alle spalle, di potersi vestire, truccare, parlare come si vuole?
La crisi economica, che porta con sé anche la caduta verticale dei valori, l’abbrutimento della cultura in dozzinali credenze antistoriche, la paura più o meno inconscia e l’insicurezza di un domani senza lavoro, senza prospettive, spinge le giovani generazioni a sfogarsi in atti di violenza identitaria, “nobilitata” da simbologie runiche e neofascisti.

Non bastano più le usuali categorie per analizzare il fenomeno (crisi economica, disagio giovanile, inefficacia della scuola, revisionismo storico, estremizzazione consumistica dei corpi e della sessualità), ma occorre prendere coscienza dell’intossicazione che corre sulla Rete, l’uso di filmati cruenti che i media propongono ad esempio con le immagini della guerra israelo-palestinese, facendo vedere soprattutto la tragedia dei bambini feriti o uccisi dai razzi di Tel Aviv lanciati sui territori, e raramente documentando le stesse scene nel campo ebraico. Domina ormai sui media e sulla Rete il “pensiero unico”: o di qua o di là!
Difficile distinguere, analizzare a fondo le cause, le origini di questo odio viscerale plurisecolare contro gli ebrei e, nell’altro caso, perorare la “causa palestinese” fuori dagli stereotipi del fondamentalismo religioso e del “terzomondismo”. E non servono più neppure le usuali categorie politiche di “destra” e “sinistra”. Dall’una come dall’altra parte si mescolano posizioni antisioniste, malcelate da un “rancore religioso” del cattolicesimo preconciliare. Si diventa così filo-palestinesi per “carità cristiana”, ma sotto, sotto, e neppure tanto velatamente, si giustificano i giovani protagonisti di atti antisemiti che allo stadio e nei cortei inneggiano ai tristi ricordi del nazismo.

Ma le vere cause della guerra in Palestina vengono oscurate, così come il genocidio in Siria ad opera di un regime arabo, un tempo “socialista”, oggi appoggiato dalle oligarchie russe, cinesi e dall’integralismo terroristico iraniano. I media non approfondiscono le ragioni degli uni e degli altri: si oscura che negli anni i palestinesi di Hamas sono stati riforniti dagli iraniani di razzi molto potenti e riarmati clandestinamente, mentre Israele lanciava la sua campagna di propaganda contro l’eventuale arma atomica di Teheran.

Per niente si approfondiscono le ragioni del perché il Governo di centrodestra, con gli scampoli di ex-laburisti e pezzi dei fondamentalisti ebraici dell’Est-Europa, non sappia affrontare la forte crisi economica interna, la disoccupazione crescente (sono state oscurate le grandi manifestazioni degli “Indignati” israeliani, spesso represse dalla polizia). Con le elezioni anticipate alle porte, a Gennaio prossimo, era purtroppo inevitabile che l’esecutivo guidato da Bibi Netanyahu, in calo nei sondaggi, in caduta libera presso le cancellerie mondiali, si affidasse ad operazioni bellicose.

Ma queste cose si possono dire sui media oppure si viene tacciati di antisionismo?
E si rischia di essere accusati di essere filo-israeliani, se si commenta con altrettanta laicità la politica strumentale delle nazioni arabe, che per loro rendiconto geopolitico e finanziario lasciano morire di fame e di stenti il popolo palestinese, spingendolo nelle mani degli integralisti, isolando la parte laica dello stato, quella guidata dall’OLP di Abu Mazen.
E’ certo assolutorio, consolatorio, appellarsi all’idea di “due liberi stati in due territori”; ma ben più difficile operare come Unione Europea affinché Israele venga associata alla nostra Comunità e combattere il riarmo clandestino delle fasce estremiste palestinesi, magari con forti aperture di credito economico nei confronti di quello stato, imponendo i rifornimenti alimentari e commerciali, con l’appoggio dalle forze navali NATO, ai territori occupati, anziché lasciando sole le varie missioni di “Freedom Flotilla”. O ancora, come stanno facendo in queste ore la Francia (membro permanente del Consiglio di sicurezza dell’ONU) e la Spagna, che hanno espresso l’intenzione di riconoscere lo stato palestinese come “osservatore speciale”.

Purtroppo, il revisionismo storico che scorre sulla Rete, i messaggi ambigui sulle cause della crisi (imputandola alla finanza ebraica mondiale, quando oggi sono predominanti quelle laica e cristiana, ma anche islamica con i paesi arabi del golfo, indù con gli indiani, ortodossa con i russi e agnostica con i cinesi), intossicano l’opinione pubblica e indeboliscono quanti vorrebbero discernere, battersi per la pace e la coesistenza, ben sapendo che spegnendo quel focolaio di tensione, si riporterebbe l’intero scacchiere mediorientale ad uno sviluppo economico moderno e democratico. Si rafforzerebbe la distensione mondiale e si farebbe uscire anche l’Occidente dalla crisi.

Ma i fumi della guerra e l’odore del sangue valgono più delle immagini di pace, specie sui grandi media televisivi!
In Europa c’è una forte ripresa dell’antisemitismo, specie in Francia e in Italia. In molti paesi del Nord e dell’Est dell’Unione si affermano partiti neonazisti; in Ungheria,il governo è apertamente nostalgico di un nazionalismo razzista e in Grecia, squassata dal fallimento della finanza pubblica e dalla crisi economica, imperversano i nazifascisti di Alba Dorata.
A Roma, la comunità israelitica ha scelto da anni di allinearsi sulle posizioni politiche del centrodestra, molto ambiguo sulla “causa ebraica”, abbandonando così lo storico collateralismo con la sinistra, facendo buon viso a cattivo gioco con l’amministrazione Alemanno (ex-nostalgico del “ventennio” che ha drenato voti dalla destra sociale e ha posizionato molti esponenti di quell’area in società amministrate dal comune).
Oggi i nodi vengono al pettine.

La comunità si sente isolata: a sinistra è cresciuto il sentimento antisemita per Israele che, anziché praticare la pace e optare per la coabitazione di due stati, continua a tollerare e difendere le occupazioni illegali dei territori a favore dei gruppi integralisti ebraici.
La destra moderata ed estrema che storicamente ha sempre storto il naso sui valori della Resistenza, perorato la causa della “pacificazione” per i “giovani patrioti di Salò” , oggi sproloquia contro l’Europa dominata dalla finanza ebraica e massonica. Ha scelto lo stadio  come “campo di addestramento” alla battaglia, lo scenario per dare sfogo ai riti tribali neofascisti e razzisti, dove i cori e gli striscioni imperversano contro le altre tifoserie, tacciate di essere “ebrei”, “froci” e via dicendo. Dagli stadi, poi, ci si riversa come belve affamate nello scontro fisico, alla caccia dei tifosi isolati o dei gay e dei trans che frequentano determinate zone della Capitale.

Si rischia un cortocircuito, insomma, che potrebbe alimentare altra violenza contro la comunità ebraica italiana e poi contro gli stessi emigrati islamici o neri, ritenuti a loro volta “usurpatori” del lavoro a scapito dei disoccupati italiani.
Il ruolo primario dei media è quello di analizzare a fondo sia questi movimenti culturali e politici nel nostro paese. Troppi silenzi omertosi su quello che accade dentro e fuori gli stadi di calcio, ormai terra di conquista e di scontro tra fazioni, anche da parte della RAI. Nessuno stadio viene chiuso, nessuna partita sospesa, nessuna multa pesante comminata alle squadre, le cui dirigenze sembrano colluse con questi gruppi di supporter ben organizzati, che comunque assicurano loro introiti e presenze negli impianti sempre più deserti.
E’ tempo perché si realizzino, invece, inchieste sul variegato mondo delle tifoserie estremiste del calcio e le collusioni con gli ambienti neofascisti che orbitano attorno al business del calcio, sul cambiamento culturale e politico della stessa comunità ebraica.
A quando documentari sulla vita altrettanto drammatica degli israeliani, sulle stragi siriane e sulle responsabilità dei “paesi fratelli” arabi che soffiano sul fuoco per motivi meramente di potere economico e geopolitico?
Occorre ritornare ad un uso corretto delle immagini, annotando che spesso si ricorre a repertorio vecchio, parlando invece di atti di guerra con equidistanza tra i due contendenti.
Il ruolo dell’informazione è proprio quello di fornire strumenti per conoscere e comprendere i fatti, per sentire tutte le voci in campo. Un compito arduo, a volte col rischio della propria vita, ma certo una chiave di volta per aprire gli occhi ad un’opinione pubblica sempre più spesso preda dell’estremismo mediatico, del “pensiero unico”.


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