Una guerra d’indipendenza per la Rai

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Di tutte le questioni sollevate da Giulietti nel cahiers de doléances indirizzato ai nuovi vertici della Rai ve n’è una la cui priorità è inderogabile se davvero si vuol mettere mano a una radicale riforma del servizio pubblico: l’assetto organizzativo della Rai. Molti considerano questa una mera questione d’ingegneria aziendale da affidare a società specializzate laddove si tratta di un tema squisitamente politico, culturale e ideologico.

L’aspetto politico

L’attuale ripartizione in reti e testate, distinte e contrapposte, risale alla riforma del 1975, una riforma fortemente influenzata dalla politica di “unità nazionale” e dall’esigenza di garantire un effettivo pluralismo nella televisione di Stato. Quel modello, tuttavia, per quanto politicamente corretto, era già allora penalizzante poiché favoriva la formazione di tanti piccoli feudi autarchici che producevano programmi di tutti i generi, ma soltanto per i loro palinsesti. Questa frammentazione, all’epoca del monopolio pubblico, aveva una sua logica ma oggi, in un sistema concorrenziale dominato dalla Tv commerciale e a pagamento, che senso può avere questa competizione in tono minore tra reti e testate che a stento producono per il loro palinsesto trascurando, inevitabilmente, il mercato mondiale della televisione e degli altri media?

Il risultato di quest’organizzazione per media (radio, Tv, Internet, Televideo, libri, ecc.) è che in Rai, oggi, se si esclude la fiction, tutti fanno tutto… contro tutti.

Dal 1975, tutti i mutamenti avvenuti nell’organizzazione aziendale si sono distinti per estemporaneità e improvvisazione generando una sorta di stratificazione geologica in cui pezzi di azienda si sono venuti sovrapponendo ad altri in maniera del tutto accidentale e incoerente: dalla costituzione di divisioni e società in vista della privatizzazione (1998) all’accentramento dei poteri nelle mani del Direttore Generale (2004) fino al timido accenno a un’organizzazione per generi con la creazione di una Direzione Intrattenimento (2011).

Tra le tante strutture costrette a navigare a vista, le più obsolete e, soprattutto, le più anacronistiche, sono le reti televisive. Come si può pensare, infatti, che strutture di programmazione di piccolo cabotaggio come quelle delle tre reti, siano in grado di competere con aziende multinazionali, altamente specializzate nei programmi d’intrattenimento e culturali? La creazione di nuovi format richiede grandi investimenti e creatività; le reti non possono far altro che acquistarli – piuttosto che idearli e produrli – con la conseguenza di omologare sempre più l’offerta di servizio pubblico a quella delle Tv commerciali.

Non si comprende, quindi, perché un’impresa che produce contenuti, debba essere organizzata per media e non per generi – e soprattutto perché debba farsi concorrenza al suo interno.

L’attuale organizzazione per media è, dunque, il brodo di cultura della lottizzazione partitica, il suo presupposto, la sua condizione di fattibilità in quanto moltiplica indefinitamente le strutture editoriali legittimando la distribuzione degli incarichi sulla base degli equilibri politici tra i partiti di maggioranza e di opposizione, e le rispettive correnti. Questo modello organizzativo ha consentito l’occupazione della Rai da parte delle segreterie di partito e di svariate conventicole. Smontare questa babele organizzativa significa creare i presupposti per restituire alla Rai una sua indipendenza, qualora l’abbia mai ottenuta.

L’aspetto culturale

Il modello organizzativo di un’azienda non può prescindere dalle finalità che si propone, in altre parole dalla sua mission. Questo vale soprattutto per quegli apparati che producono cultura e informazione. Ricorrendo a una metafora, potremmo dire che la Rai non è un autobus la cui direzione di marcia è nelle mani di chi la conduce; piuttosto la si potrebbe paragonare a un tram; se insieme al manovratore non si cambia anche il tracciato delle rotaie, si potrà variare la velocità o il numero delle fermate, ma il percorso e la destinazione rimarranno sempre gli stessi.  Ad esempio una televisione pubblica che produca programmi che favoriscano la crescita civile e la coscienza critica dei telespettatori non può avere lo stesso assetto organizzativo di una televisione commerciale che ha tutt’altra finalità: quella di “produrre” telespettatori da vendere alle agenzie di pubblicità, riducendoli, quindi al ruolo di “merci” da piazzare sul mercato dell’advertising. Pertanto, il funzionamento di un apparato editoriale deve essere funzionale alla sua mission; se vi è incoerenza tra il modello organizzativo e le finalità, queste ultime non potranno mai essere perseguite per quanto siano oneste le intenzioni di chi lo amministra.

L’aspetto ideologico

E’ noto che non vi è nulla di più pernicioso di un luogo comune quando sale in cattedra. A questo proposito, non è esagerato dire che all’origine di tutte le distorsioni e le nefandezze che hanno portato al declino della Rai vi è un luogo comune molto radicato tra giornalisti, politici e uomini di cultura di ogni tendenza; quello che dice: “L’obiettività non esiste”.

Questa massima, tipica di una deriva postmoderna fortemente critica nei confronti del realismo, costituisce l’impalcatura ideologica della lottizzazione, conferendo a quest’ultima il carattere della ineluttabilità e, pertanto, una patente di legittimità politica e culturale.

Secondo questo “dogma” è impossibile, infatti, essere imparziali nella descrizione della realtà: una realtà alla quale non potremmo avvicinarci neanche per approssimazione a causa del vizio prospettico indotto dalla nostra ineludibile faziosità. Di conseguenza, la verità (realtà) sarebbe di per sé inconoscibile, in ogni caso non sarebbe comunicabile (Gorgia) o addirittura, secondo il celebre aforisma di Nietsche non esisterebbe affatto: “Non esistono fatti ma solo interpretazioni”.

Il trionfo della doxa (opinione) sull’episteme (verità oggettiva) comporta, nell’informazione e nella vita politica, conseguenze più gravi di quanto non sembri a prima vista. Lo scontro per giungere a svelare la verità si trasforma, infatti, nello scontro intorno alla verità. In altre parole, ciò che conta non è tanto mostrare come realmente stanno le cose attraverso una scrupolosa e imparziale indagine sui fatti e il loro contesto, ma piuttosto persuadere l’opinione pubblica che una data interpretazione dei fatti sia la “verità”. Questa caduta nel precipizio della doxa ha generato regole del gioco che sfiorano la perversione: dalla lottizzazione allo spoil system, dalla par condicio permanente all’idea che  il pluralismo e l’obiettività siano la somma di tre faziosità.

L’istituzionalizzazione di questo dogma non solo ha privato i giornalisti e gli autori dei programmi della loro dignità professionale (ciascuno si trova, volente o nolente, a indossare una casacca), ma ha anche favorito l’ascesa e il successo di anchorman e conduttori di talk show politici che si distinguono proprio per la loro manifesta unilateralità a scapito di quelli che essendo “obiettivi”, non avendo un’etichetta, non fanno carriera.

I talk show politici, che hanno occupato nei palinsesti lo spazio una volta dedicato al rigoroso giornalismo d’inchiesta, sono l’emblema della mortificazione del lavoro giornalistico nel servizio pubblico. Infatti, mentre nell’inchiesta è la televisione, con le sue telecamere, ad andare nelle realtà sociali per documentarne le dinamiche e le condizioni di  vita dei suoi protagonisti, nel talk show è la realtà sociale che entra (si presume che entri) nello studio televisivo: uno spazio, angusto e artificiale, del tutto inadeguato a ospitarne la complessità e, soprattutto, a mostrarla. In questo genere di trasmissioni i commenti prendono il posto dei fatti mentre questi ultimi diventano, spesso, solo il pretesto per rinfocolare la passerella delle opinioni.

Eppure come potrebbe quella del giornalista definirsi una professione se non si applicasse a un campo d’azione oggettivamente definito, se si negasse l’esistenza di una realtà indipendente dai nostri schemi interpretativi e concettuali? Il compito del giornalista è simile a quello dello storico che consiste in una faticosa ricostruzione di situazioni ed eventi con l’ambizione di approssimarsi quanto più è possibile alla verità storica: un lavoro che richiede rigore intellettuale e morale per evitare che prendano il sopravvento le tendenze ideali e politiche proprie a ciascuno di noi.

Al modello organizzativo per generi è stata da più parti opposta l’obiezione che sarebbe quanto meno imprudente, se non addirittura pericoloso, mettere nelle mani di un solo direttore tutta l’informazione oppure tutti i programmi culturali, nonostante che da oltre due lustri si succedano al vertice di Rai Fiction direttori di orientamento politico e culturale assai diversi senza che questo abbia nuociuto al pluralismo e alla qualità dell’offerta. Naturalmente, sarebbe da ingenui sottovalutare questo rischio dopo che per oltre trent’anni si è imposta la figura del “giornalista con l’etichetta”, ma fino a quando non si comprenderà che la professionalità nel servizio pubblico richiede, rispetto a quella ordinaria, un surplus di autonomia nella faticosa ricerca dell’oggettività, nessuna rivendicazione d’indipendenza potrà essere presa sul serio.

In conclusione: si crei intorno al servizio pubblico una cintura sanitaria istituzionale che lo preservi dal contagio dei partiti (fondazione?) poiché il pluralismo è un patrimonio della società civile che non può essere mortificato dentro due o tre casacche di partito; si smantelli l’aggrovigliata struttura organizzativa che penalizza la creatività, premia il conformismo ed è funzionale solo alla spartizione delle poltrone; si suggelli (in non più di dieci righe) la mission della Rai nell’epoca dei nuovi media; si affermi una deontologia fondata sulla scrupolosa ricerca della verità: amicus Plato sed magis amica veritas.

Non sarà facile. Sarà necessaria una guerra d’indipendenza.


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