La Rai colonizzata da Berlusconi dopo che Silvio trasformò l’Italia nel Paese “da bere e dell’apparire”

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S’è detto che Berlusconi vince le elezioni perché ha in mano le televisioni. E’ difficile non essere d’accordo con tale affermazione, dal momento che, obiettivamente, l’Italia rappresenta un caso unico dal punto di vista della concentrazione del potere mediatico televisivo pubblico e privato. Si può, per generosità e brevità, accantonare un’analisi critica sul potere del Biscione, anche se resta in ogni caso “affascinante” ripercorrere il tragitto (i corridoi?) attraverso cui s’è formato l’Impero Mediaset.Per quanto riguarda invece la lettura della soggezione dell’emittente pubblica al pontefice di Arcore, l’emozione che prevale è l’imbarazzo, di fronte a una colonizzazione che ha saputo (e chi sa quando finirà!) saldare i periodi di sua permanenza a Palazzo Chigi con quelli – quasi irrilevanti – all’opposizione. Un  controllo ininterrotto di ciò che va in onda, esercitato non soltanto quando si è sotto elezioni. A parte che da vent’anni viviamo, di fatto, con l’incombenza delle urne.

In ogni caso, pur con tutte le critiche che si possono muovere ai sistemi elettorali di cui il nostro Paese s’è via via dotato, il Cavaliere non s’è auto-nominato presidente del Consiglio, non s’è insediato a Palazzo Chigi con un golpe. Gli italiani l’hanno votato.
Il consenso lui se l’è costruito e se lo costruisce fornendo un modello di comportamento, un modello di vita.

In altre parole, il Berlusconi-imprenditore prima s’è fabbricato un suo Paese, un pezzo di nazione a sua immagine e somiglianza, uomini e donne la cui più grande aspirazione è diventare Lui. Una base elettorale, cioè, alla quale poi il Berlusconi-politico ha fornito un partito da votare, con la garanzia (non dimentichiamoci il contratto con gli italiani, “…soddisfatti o rimborsati …”) che avrebbe trasformato tutti i ranocchi in principi.

Quel modello l’ha proposto (imposto?) soprattutto alle giovani generazioni che, man mano, si sono avvicendate sulla scena nazionale, reggendo a fatica il confronto a livello internazionale.

Ha cominciato nei primi Anni ’80, dopo la crisi che ha devastato il Paese portandosi via i valori che, bene o male, caratterizzarono il decennio precedente: partecipazione, egualitarismo, solidarismo, democratizzazione della cultura, femminismo. Li sostituì con disimpegno, individualismo, consumismo, mercificazione, rampantismo, seduzione.

E non usò la bacchetta magica, ma riuscì nel suo intento con un lavoro ai fianchi, costante e profondo, persino sofisticato, all’insegna del “ghe pensi mi”. Negli Anni ’80 era d’obbligo rispondere al saluto “come stai?” con “benissimo”.

Così, il “Paese da bere e dell’apparire” si affermò, dilagando geograficamente e generazionalmente,  conquistando in particolare i giovani di allora che, insieme con quanti non ne potevano più di dibattiti, di prese di coscienza e di assunzioni di responsabilità, costituirono il bacino di consenso della proposta berlusconiana.

Proposta infettiva che trovò nel mondo dell’informazione, della pubblicità, del cinema, della musica, delle arti (della moda?) e soprattutto della televisione, un formidabile ricostituente, sempre fornito gratis (apparentemente!), abbondante, costante. Un doping.

E i gregari si illusero sfrontatamente di essere diventati fuori classe (giovane maschio, abbronzato tutto l’anno, fotografo di gossip); le cenerentole principesse senza pudore (giovane femmina, splendido lato B, consigliera regionale). E la furbizia, alla luce del sole, ebbe sempre la meglio sull’onestà, gli slogan sulla sostanza.

Fatte queste ritrite premesse, sarebbe ora interessante (indispensabile?) un ragionamento sul ruolo formativo a lunga gittata del servizio pubblico televisivo. E’ riduttivo, a mio avviso, riconsegnare indipendenza al mondo dell’informazione, rivalutare la creatività, liberare spazio per le idee diverse da quelle che vanno per la maggiore. Iniziative sacrosante.

Occorre anche e soprattutto proporre nuove linee produttive di una catena di montaggio che travalichi una televisione aggrappata a modelli stantii e di scarso appeal, ma sappia gestire un cantiere, mille cantieri che ricostruiscano le basi di una società disgregata ed effimera, che si auto-riproduce tristemente in maniera conforme. Intere generazioni di avatar inconsapevoli, che interpretano ruoli più marginali in altri Paesi rispetto a quanto avviene nell’ex Bel Paese, perché vengono opportunamente etichettati come devianti e, quantomeno, non vengono proposti “istituzionalmente” ai giovani come esempi da seguire acriticamente. Basta entrare in un centro commerciale per credere…


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