Un cinema degli “ultimi” con cui sarà bene imparare a fare i conti

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Locarno. La scelta è coraggiosa, anche per un festival per palati fini come quello di Locarno, il piu’ antico, giunto quest’anno alla sua 65esima edizione. Una scelta in linea con una tradizione fatta di ricerca, sperimentazione e valorizzazione di nuovi talenti. Così anche quest’anno Locarno non smentisce la sua fama, e accanto alla tradizionale babele di film provenienti da ogni angolo dei cinque continenti, dedica uno spazio d’onore alla “rappresentanza”, particolarmente folta, della cinematografia africana.

Già nelle edizioni passate si erano potute vedere produzioni marocchine e algerine, egiziane e tunisine. Quest’anno però la parte del leone la fanno i film dell’Africa nera: pellicole “targate” Burkina Faso, Camerun, Ciad, Congo, Costa d’Avorio, Guinea Bissau, Mali, Senegal…Prove a volte ingenue e candide, nel loro linguaggio cinematografico, didascaliche e al tempo stesso enfatiche; prove comunque interessanti e da tenere d’occhio: testimonianza di una vitalità (e anche di una maturità) sorprendenti e che fa ben sperare. Una cinematografia giovane che converrà tenere d’occhio. Le sorprese non mancano.

Il Mali è una di queste sorprese. Ex colonia francese, incastonato tra Algeria, Niger, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Senegal e Mauritania, è un territorio dove metà è deserto, l’altra metà savana, e dove è in corso una guerra civile che vede opposti tuareg indipendentisti, elementi di al Qaeda, residui dell’esercito gheddafiano. Da una realtà ignota e ignorata come questa tutto ti puoi attendere meno che un fluviale ’Bamako’, del regista Abderrahmane Sissako: storia di Malé, cantante in un bar; il marito di Malè, Chaka non ha lavoro, il matrimonio sta andando alla malora. In questo contesto, nel cortile dell’abitazione diviso con altre famiglie, viene allestito un tribunale. E’ stato avviato un procedimento giudiziario nientemeno che contro la Banca Mondiale e l’FMI, accusati di essere responsabili del dramma che sconvolge l’Africa. Tra arringhe e testimonianze, in un clima surreale, ma non privo di una sua logica, la vita quotidiana scorre normale, se di normalità si può parlare. “Bamako” diventa la metafora di un’Africa che rivendica i suoi diritti, stretta tra la morsa di un debito astronomico che la strangola, e l’inevitabile, indispensabile, adeguamento strutturale che come pedaggio esige lo snaturamento di una società patriarcale con le sue regole e tradizioni. Malé, non a caso la donna, di questo processo si mostra consapevole, ben decisa a lottare per governarlo; Chaka, non a caso, appare è il paradigma di un mondo apatico e indifferente, incredulo e impotente, per questo assurdamente abbarbicato a una conservazione che è solo timore e resistenza inutile al nuovo ineluttabile.

In ogni caso, la novità è costituita da questo tribunale, metafora e simbolo di una volontà di lottare con le armi della legge e del diritto.

La “lezione”, se si vuole, che viene dall’economista peruviano Hernaldo de Soto Polar (sarà un caso? Anche lui del sud del mondo). Solo il diritto può salvare l’economia e la società, non si stanca di predicare De Soto. Solo un sistema legale dove, per esempio, le transazioni vengono ufficialmente registrate, può accompagnare miliardi di persone dentro i canoni dell’economia globale: «Il diritto ha avuto un’importanza fondamentale, nel creare la prosperità dal dopoguerra a oggi, un periodo durante il quale il mondo ha creato tanta ricchezza quanto nei due millenni precedenti».

Non meno interessante “Guimba, un tyran, une époque”, di Cheick Oumar Sissoko. Qui la storia è ambientata nella città di Sitakili, nel deserto del Sahel, oppressa dal tirannico Guimba Sumbuya. Anche questa una storia di rivolta, di affermazione e di libertà. Kani fin dalla nascita viene promessa sposa a Janguiné, figlio di Guimba, che pero’ si innamora della madre, Meya. Guimba, per compiacere al desiderio del figlio ordina che Mambi, marito di Meya, sia esiliato. Da questo fatto privato nasce il germe della rivolta e della resistenza alla tirannide.

Una vera e propria epopea quella che Souleymane Cissé, primo cineasta dell’Africa nera premiato a Cannes nel 1987, “canta” nel suo “Yeelen”: un dramma sulla principale etnia del Mali, i Bambara, sul filo di una narrazione che mescola invenzione pura a leggende mitologiche. Niamankoro è il classico eroe che deve superare mirabolanti prove e affrontare una quantità di peripezie, pedaggio per rinnovare una società condannata al decadimento.

Lavori la cui cifra potrà a volte apparire ingenua all’occhio smaliziato di uno spettatore occidentale; che però commetterebbe un grave errore a guardare queste pellicole con sufficienza: perché rivelano una freschezza narrativa, una capacità non comune nell’immaginare e rappresentare situazioni complesse, una ammirevole e discreta padronanza dei mezzi, una sorprendente capacità comunicativa, facendo ricorso a metafore ardite e piacevolmente sorprendenti. Lo si dice pensando per esempio a “Muna Moto” del camerunese Jean-Pierre Dikongué-Pipe: storia agro-dolce di Ngando e Ndomé, due ragazzi innamorati l’uno dell’altra; ma Ngando non ha il denaro sufficiente per poter chiedere, come esige la tradizione, la mano di Ndomé; fa debiti, diventa prigioniero di uno zio spietato e facoltoso, che non ha avuto eredi da nessuna delle tre mogli, e si mette in testa di averne da Ndomé, che peraltro già è incinta di Ngando…un divertente vaudeville che fa pensare a Shakeaspeare, in questa sua “Romeo e Giulietta” che strappa applausi e sorrisi per i sorprendenti risvolti e soluzioni stilistiche. Ma lo stesso si potrebbe dire dell’ironico e beffardo “Bal poussière” dell’ivoriano Henri Duparc: “Semidio” Alcacy è un ricco coltivatore di ananas, ha già cinque mogli, quando sul suo orizzonte appare la giovane, bella e sfrontata Binta, cacciata dalla zia per via del suo comportamento arrogante. Alcacy s’invaghisce perdutamente di Binta, la vuole impalmare, e la ragazza ci sta, ma a precise condizioni…Inutile dire che per Alcacy sarà l’inizio di un meritato inferno…

Si potrebbe chiudere – ma il discorso ovviamente è tutt’altro che esaurito – con “Une fenetre ouverte”, di Khady Sylla. Nata a Dakar nel 1963, ha pubblicato diversi romanzi e racconti, il più noto “Le Jeu de la mer” del 1992. Ha anche realizzato un cortometraggio, “Les Bijoux”(1997);e due documentari, “Colobane Express” (2000) e “Une fenêtre ouverte”: premio per la miglior opera prima al Festival internazionale del documentario di Marsiglia (FID): splendido documentario in cui l’autrice, a un passo dalla malattia, intreccia il suo sguardo con quello di Aminta, in preda alle sue fobie e al suo male di vivere. Lo stesso sguardo misericordioso che pone con “Le Monologue de la muette”: Amy è una delle tante ragazze che in Senegal fanno le donne di servizio, lavoratrici bambine, visto che spesso hanno meno di dodici anni, senza contratto e paga, un pugno di cattivo cibo e un letto, vere e proprie schiave il cui destino dipende dagli umori del padrone di turno. Nell’intimità del suo rifugio forzato Amy da alla luce una bimba: inizio di un percorso che non sappiamo se porterà alla sua liberazione o a nuove umiliazioni. Però è un percorso, e a far da cornice il canto di denuncia e speranza delle amiche lavandaie che condividono il destino di Amy, la resistenza delle donne della bidonville della rue 11 nella medina, la rabbia di cui si fa portatrice e interprete la poetessa slam Fatim Poulo Sy…

Un cinema degli “ultimi” sognante e musicale, poeticamente militante, ricco di potenzialità e che presto troverà modo di emergere prepotentemente.


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