No al bavaglio, al netto di Assange

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A noi non interessa Julian Assange in quanto Julian Assange; anzi, a voler essere sinceri, quest’australiano misterioso e controverso, la cui organizzazione, WikiLeaks, ha messo in apprensione le cancellerie di mezzo mondo, ci è sempre sembrato un personaggio da prendere con le molle e da valutare con molta attenzione.

Detto questo, la nostra opinione in merito a censure e bavagli non cambia, non cambia mai, chiunque se ne renda protagonista: che si tratti di un governo “amico” o di un governo le cui idee sono distanti anni luce dalle nostre; di un governo tecnico o di un governo straniero, che sia la Russia di Putin o il Sudafrica.

Saremo sempre e comunque in piazza contro chiunque provi ad imbrigliare i giornalisti, in qualunque parte del mondo, a cominciare da quelli che ci sono antipatici, che difendono princìpi contro i quali siamo i primi a batterci, che magari in passato ci hanno anche attaccato o addirittura preso in giro.

E non solo i giornalisti, naturalmente, ma anche gli scrittori, i musicisti, le donne e gli uomini di cultura e gli intellettuali in generale, come ad esempio il gruppo punk delle “Pussy Riot”, condannato ieri a Mosca a due anni di reclusione per aver espresso una civile e variopinta protesta nei confronti di una falsa democrazia che da oltre un decennio comprime la libertà d’espressione in Russia.

Il nostro discorso, dunque, va ben al di là del singolo caso di Assange; solo che qui entra in gioco una considerazione tutt’altro che secondaria. Possono, infatti, due nobili democrazie come la Gran Bretagna e gli Stati Uniti farsi mettere in discussione da un paese come l’Ecuador (lo stato che ha concesso asilo politico al fondatore di WikiLeaks), il cui presidente Correa non è proprio un noto difensore della libertà di stampa?

Possono due paesi che hanno insegnato al mondo cosa significhi avere un’informazione veramente libera far sembrare un eroe un Presidente che – racconta Gianni Riotta su “La Stampa” – ha talmente a cuore l’argomento da essere stato accusato, nel rapporto 2012 di “Freedom House”, di “reprimere la stampa nel suo Paese”? E, quel che è peggio, possono far diventare un’icona globale del diritto alla libertà d’informazione un personaggio che ha simili amicizie?

Quando pensiamo agli Stati Uniti, a noi vengono in mente le parole di Thomas Jefferson: “La nostra libertà dipende dalla libertà di stampa, ed essa non può essere limitata senza che vada perduta”; e ci torna in mente anche l’esempio di quei due giovani cronisti del “Washington Post”, Bob Woodward e Carl Bernstein, che con un’inchiesta da manuale svelarono al mondo l’azione di spionaggio ordita dal presidente Nixon a danno dei Democratici, costringendolo a delle clamorose dimissioni nell’agosto del 1974.

Che succede, dunque, a due nazioni da sempre considerate modelli di civiltà e rispetto delle regole? Da cosa deriva tanta inquietudine e tanta paura di fare i conti con se stesse e, eventualmente, con i propri errori? Nella mancata risposta a questi quesiti è racchiusa una buona parte dei motivi del declino delle società occidentali, di un degrado morale, sociale, civile, politico e, di conseguenza, anche economico che appare inarrestabile.

Per questo, Assange o non Assange, avvertiamo il dovere, ora più che mai, di batterci al fianco di coloro che disturbano le ragioni e le trame di poteri occulti che nulla hanno a che vedere con i governi e con le libere scelte degli elettori; ma, al contrario, le influenzano al punto di compromettere il concetto stesso di democrazia. E siamo sicuri che, a tre mesi dalle Presidenziali, il primo a pensarla come noi sia proprio Barack Obama.


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