E la filosofia finì in un capannone

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Quando fra una trentina d’anni i nostri figli ci porranno qualche domanda su questo strano periodo che stiamo vivendo, e quando gli storici si interrogheranno su come sia potuto accadere tutto ciò che oggi a qualcuno sembra addirittura normale, probabilmente racconteremo loro un episodio emblematico di quest’epoca effimera priva di cultura, di sogni, di speranze, di orizzonti e persino di sentimenti. Racconteremo loro dei trecentomila volumi dell’Istituto italiano per gli studi filosofici di Napoli che sono stati trasferiti dalla propria biblioteca in un capannone di Casoria, nel quale ci auguriamo di cuore che, quanto meno, vengano sistemati seguendo un certo ordine, un certo criterio e non accatastati alla rinfusa, come se si trattasse di oggetti qualsiasi.
Tuttavia, al di là dell’ordine nel quale saranno disposti e del garbo col quale saranno trattati (si spera), resta l’infinita tristezza di un trasloco cui mai avremmo voluto assistere. Infatti, come ha scritto Angelo Mastrandrea su “il manifesto” di venerdì scorso, “l’Istituto italiano di studi filosofici deve smobilitare perché, tra Tremonti e Monti, in pochi anni i contributi statali sono stati praticamente azzerati. I lanzichenecchi insediati alla Regione Campania hanno provveduto al resto, lasciando cadere nel dimenticatoio una vecchia delibera che prevedeva l’istituzione di una biblioteca per accogliere le migliaia di libri dell’Istituto e consentire a studenti e ricercatori di poterli consultare”.
Perché qui non si tratta di soldi (o meglio: si tratta anche di soldi, purtroppo, come sempre, ma non si può ridurre ogni discussione e ogni decisione ai soldi, anche se sono indispensabili, perché altrimenti è la fine) né di necessità né di urgenze: qui si tratta di scelte e queste scelte sono sbagliate, pericolose per il futuro del Paese, deleterie per la formazione delle nuove generazioni e per lo stato, non certo esaltante, nel quale versano i nostri atenei.

Riprendendo una riflessione che Talleyrand rivolse a Napoleone, a proposito dell’uccisione del Duca d’Enghien: “È stato peggio di un crimine, è stato un errore”. E questi errori, credo lo sappia bene anche chi li commette, si pagano, e pure a caro prezzo: non oggi magari, ma senz’altro in futuro; e a pagarli saranno soprattutto i giovani, che si ritroveranno privati di una fonte di sapere e di conoscenza dalla quale si accorgeranno di non poter prescindere.
Trattandosi, poi, di filosofia, la vera disgrazia è che negli ultimi vent’anni questa nobile scienza, al pari dell’intero patrimonio culturale italiano, sia spesso finita in mani sbagliate: nelle mani di chi non sa neanche cosa sia la cultura, di chi quando ne sente parlare segue l’insegnamento di Goebbels, cioè mette mano alla fondina, di chi non ha alcun interesse a difendere le meraviglie che rendono unico il nostro Paese e per le quali gli stranieri impazziscono, di chi preferisce deturpare il paesaggio con continue colate di cemento piuttosto che proteggerlo, rilanciarlo turisticamente o sfruttarlo per un serio sviluppo agricolo ed enogastronomico.

Basti pensare ai dati che ha rivelato “l’Unità” dello scorso 24 agosto: nonostante la crisi, secondo lo studio Excelsior di Unioncamere e del Ministero del Lavoro, le imprese culturali sarebbero pronte ad assumere ben trentaduemila persone entro la fine dell’anno. Per questo, non possiamo che condividere le riflessioni di Ferruccio Dardanello, presidente di Unioncamere: “Gli italiani devono recuperare non soltanto il senso economico della cultura, ma anche in una certa misura il suo senso sociale, di elemento alla base delle sue produzioni di eccellenza e occasione per dare opportunità di lavoro a tanti giovani che hanno capacità e qualità da vendere. Purtroppo è ancora diffusa l’idea che con la cultura non si mangi, ma i successi del made in Italy, di cui tanta parte discende proprio dalla nostra cultura del fare, vengono da questo patrimonio inesauribile”.

Senza dimenticare che la cultura crea anche un senso di solidarietà e di condivisione, l’idea che si possa stare insieme in armonia, serenamente e senza pregiudizi reciproci. Non a caso, la progressiva scomparsa della cultura dal nostro orizzonte quotidiano ha accompagnato l’imbarbarimento di questi anni, lo ha scandito, ne è stata al tempo stesso la causa e l’effetto, in una perfida spirale di crescente ignoranza che ci ha reso tutti più poveri e più soli.
Roberto Bertoni


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