Tarantola alla Rai

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In un commento scritto “sul tamburo” per “l’Unità” la sera stessa della designazione di Anna Maria Tarantola alla presidenza della Rai e di Luigi Gubitosi alla direzione generale mi sono permesso di rilevare che, per governare un’azienda complessa – quasi un gruppo polisettoriale integrato – come quella di Viale Mazzini, non bastano competenze finanziarie, non basta cioè essere severi “guardiani dei conti”. A mio modesto avviso, bisogna anche avere delle competenze specifiche, realmente manageriali, conoscere il mondo della comunicazione, dell’editoria, dello spettacolo nelle sue varie forme, in una parola delle televisioni generaliste e/o tematiche europee (quelle che vivono di canone, come e più della Rai, quelle che fanno servizio pubblico, come e più della Rai).

Per la maggior parte dei commentatori e dei quotidiani va benissimo che presidente e direttore generale siano stati (finalmente) indicati al di fuori della “spartizione partitocratica”. Punto. Il resto non sembra contare granché. Per la verità, quando il CdA, di soli 5 membri, venne nominato dai presidenti delle due Camere (nel ’93 c’era Giorgio Napolitano a Montecitorio) i designati rappresentavano aree politico-culturali e non portavano casacche di partito. Fu così per i “professori”. Si poteva incasellare in un partito l’economista Claudio Demattè oppure Paolo Murialdi, il filosofo Tullio Gregory, l’editore Elvira Sellerio o l’amministrativista Feliciano Benvenuti? Anche nel CdA di cui ho fatto parte per quattro anni (1998-2002) eravamo tutte persone provenienti o dalla stessa Rai (come Balassone, un tecnico, e Gamaleri, un sociologo), o da precedenti CdA (Zaccaria, giurista), o da aziende “contigue” che essi avevano concorso a gestire (Contri ed io che avevo collaborato soprattutto con la Raidue di Fichera). E il direttore generale Pier Luigi Celli era già stato capo del personale in Viale Mazzini dopo una lunga esperienza all’ENI.

Ieri Gianni Locatelli, direttore generale nel ’93 (eravamo insieme al glorioso “Giorno”), ha affermato che tutta una serie di direttori di Tg furono nominati senza consultare i partiti. E’ quanto potemmo fare anche noi: il nome di Gad Lerner al Tg1 (ripeto, al Tg1) lo approvammo senza che nessuno, ma proprio nessuno lo sapesse.
Il discorso sulle competenze continuo a ritenerlo fondamentale. Tanto più che i poteri attribuiti da Mario Monti al ticket presidente-direttore generale sono tali da svuotare di gran parte del suo ruolo il resto del CdA, fino a far prefigurare, come hanno osservato Giuseppe Giulietti e Vincenzo Vita, una sorta di commissariamento mascherato. Racconto un’esperienza personale: erano talmente impegnativi i problemi che ci trovammo di fronte nel ’98 che per alcun mesi dovemmo abbinare al lavoro ordinario e straordinario anche continue “full immersion” con questo o quel gruppo di consulenti per capire meglio la Rai e il suo possibile futuro. Anche nelle alleanze europee, come quella con Canal Plus per Raisat appena creata allora.

Certo, i conti rappresentano oggi un problema-chiave, assillante, per la Rai di fronte alla grave crisi della pubblicità e alla stagnazione di un canone che è il più basso e il più evaso d’Europa. Ma fronteggiare questa doppia crisi è forse un problema “tecnico”, finanziario? No. Per attrarre pubblicità, bisogna fare alti ascolti, con continuità, coniugando tutto ciò col servizio pubblico. Per giustificare un incremento del canone e anche soltanto per combattere a fondo evasione morosità, bisogna presentarsi agli abbonati con programmi, personaggi, palinsesti fortemente attraenti. E’ problema tecnico-finanziario se programmi politico-culturali di ascolto elevato sono stati cancellati nelle ultime stagioni, da Santoro a Fazio-Saviano, a quasi tutta la satira, di successo oltretutto (Corrado Guzzanti in testa)? E’ problema tecnico-finanziario se la Rai non avrà più, dopo queste, le Olimpiadi, la Formula 1, i Mondiali di calcio, i collegamenti per “Quelli che il calcio” e via elencando? Nell’uno e nell’altro caso sono sufficienti competenze finanziarie, bancarie? E inoltre: è un problema tecnico-finanziario riportare il pluralismo dell’informazione nei telegiornali e radiogiornali Rai (anche in quelli regionali strettamente “irreggimentati”)? Ho seri, serissimi dubbi. E gli altri componenti del CdA – sui criteri di nomina dei quali si sta discutendo accesamente perché Verro e De Laurentis, autentici “salvatori” della Rai, non se ne vogliono andare – non avranno molta voce in capitolo, anche se si avrà la forza di candidare personaggi autorevoli. Coi poteri che Monti ha spostato sul duo Tarantola-Gubitosi, tocca soprattutto a loro due affrontare la crisi complessiva di identità della Rai, l’oscuramento della sua “mission” di servizio pubblico, la crisi di autori e di programmi, la mancanza di pluralismo politico-culturale, l’offuscamento dell’immagine Rai, cioè tutti gli elementi di fondo che in questi ultimi anni hanno allontanato tanti telespettatori. Non conta nulla tutto ciò? Pesano soltanto i conti? E poi, consentitemi almeno una battuta: davvero il futuro presidente e direttore generale non hanno aree politico-culturali di riferimento? A quanto pare, a Mario Monti non viene mai in mente, neppure per sbaglio, il nome di qualcuno che non si sia formato alla Cattolica o, in subordine, alla Bocconi, provenendo magari dalle file cattoliche.


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