Il prepotente ritorno della realtà

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di Roberto Bertoni

Di fronte al dramma di persone che si suicidano arrivando addirittura a darsi fuoco, occorre riflettere seriamente sul crepaccio in cui è piombata l’Italia dall’inizio della crisi. Apprendere poi che nel ricco e fiorente Veneto, un tempo locomotiva d’Italia insieme alla Lombardia, cinquanta imprenditori non hanno retto alla disperazione e al fallimento delle proprie aziende e si sono tolti la vita, induce a riconsiderare tutto ciò che ci è stato raccontato in questi anni. Ve la ricordate la storiella del Nord produttivo che non può continuare a supplire alle carenze del Meridione cicala? E ve la ricordate l’altra storiella che le organizzazioni criminali stanno solo al Sud mentre il Nord è ricco, virtuoso e probo?

E ancora: ve la ricordate la storiella secondo cui è colpa del Sud se il lombardo-veneto non riesce a raggiungere gli standard produttivi e di reddito della Baviera? Ebbene, tenetele a mente queste storielle, al pari dei volti, delle voci e dei comportamenti di chi le ha propagandate, perché è in questo abisso di luoghi comuni che si annidano le cause principali del nostro declino. Non commettete l’errore, comune a molti, di ricordare e citare di continuo soltanto le gaffes di Berlusconi: erano gravi, certo, umiliavano l’Italia davanti al mondo, ma non avrebbero avuto effetti così dirompenti se non si fossero accompagnate alla valanga di favole sopra menzionate.

Per anni, noi che cerchiamo sempre di osservare la realtà con l’occhio critico di chi vuole capire, siamo stati accusati di pessimismo, di disfattismo, di pregiudizi nei confronti del governo di centrodestra, fino a quando la crisi non ha travolto tutto e tutti, come un fiume interrato malamente e dimenticato a lungo nel sottosuolo fin quando la piena non lo fa rovinosamente straripare. Se oggi il Paese è ridotto in queste condizioni, infatti, siamo convinti che una parte delle responsabilità sia da attribuire a quell’informazione che, per opportunismo, ha abdicato al proprio ruolo e nell’ultimo decennio non ha fatto altro che minimizzare, tacere, “abbassare i toni”, far finta di niente, voltarsi colpevolmente dall’altra parte finché ha potuto, finché la vergogna e il senso di umiliazione di chi si è visto perduto non hanno preso il sopravvento sulle notizie imbellettate col cerone dell’eufemismo.

Come ha scritto Adriano Sofri su “la Repubblica”, siamo di fronte ad una “Spoon River della crisi”, con un paragone, agghiacciante ma opportuno, tra il rogo del povero artigiano di Bologna e quello del giovane tibetano che si è dato fuoco a Nuova Delhi. E ha aggiunto: “È questo, la crisi, per tanti: non sapere più come fare, e non rassegnarsi alla destituzione della propria personalità. Perdere il lavoro vuol dire perdere il proprio posto, fisso o no, nel mondo. E non è vero che lo si ceda al prossimo della fila, quel posto sgombrato. Si sono inventati, non so se prima la parola o il fatto, non so se più offensivo il fatto o la parola, gli esodati. Se non ci fossero sindacati e parti politiche e sollecitatori d’opinione a sostenerli, di quale loro gesto si potrebbe stupirsi? È ora, e non durerà a lungo, il tempo di non lasciarli soli: è già un tempo supplementare. Lo sciopero del 13 aprile è un intervento di protezione civile, una scelta fra la dignità solidale e la commiserazione. Le persone che si arrendono, fino al gesto estremo, sentono d’essere abbandonate, ‘da tutti’”. Una volta, con papà riflettevamo sul fatto che quando un uomo decide di uccidersi, di solito sceglie il metodo più rapido ed eravamo giunti alla conclusione che è necessaria la forza di volontà di Jan Palach o dei bonzi tibetani per scegliere di morire in maniera così atroce e plateale.

Dissento da chi sostiene che si possa trattare di emulazione e mi sembra, sinceramente, irrispettoso nei confronti di queste persone paragonare le loro tragedie ad una moda, come se stessimo parlando di un paio di scarpe o di un tipo di pantaloni. Qui c’è molto di più: c’è, per l’appunto, la volontà ferrea di farla finita ma, al tempo stesso, di lasciare una testimonianza netta ed inequivocabile del dramma che sta scuotendo nel profondo la nostra società. Da cattolico, non posso che associarmi alle parole pronunciate da monsignor Giancarlo Bregantini e da papa Benedetto XVI, i quali hanno affermato che l’uomo non è merce e che il rispetto per la persona non può mai passare in secondo piano.

Mi permetto di aggiungere che qualunque modello di società che non ponga al centro l’uomo, la sua dignità, il rispetto dei suoi spazi e dei suoi diritti non può essere considerato democratico. Al di là del dibattito, se vogliamo anche un po’ fumoso, in merito all’articolo 18, è bene chiarire che l’Italia sta andando incontro alla rovina proprio perché per troppo tempo, invece di promuovere il benessere e lo sviluppo della collettività, l’ascesa sociale degli individui e la valorizzazione dei meritevoli (come previsto dalla Costituzione), l’ideologia ultra-liberista che è dilagata anche da noi ha favorito l’individualismo, la chiusura, l’arroccamento, la strenua difesa delle rendite di posizione, creando una società sempre più iniqua, con cittadini di serie A e cittadini di serie B (ma, forse, anche definirli cittadini è un po’ azzardato), con stramilionari che se la spassano allegramente e povera gente che si uccide perché vede sgretolarsi all’improvviso tutto ciò che ha faticosamente costruito in una vita di sacrifici. Pertanto, con l’auspicio che torni presto alla guida del Paese, poniamo al centrosinistra la sfida più grande che abbia mai dovuto affrontare: cambiare il paradigma sociale, smantellare questo sistema dannoso ed escludente e imboccare il cammino di una crescita fondata sul rispetto di tutti, sull’uguaglianza dei diritti, sulla salvaguardia dell’ambiente, sulla tutela dei più deboli e di coloro che sono stati massacrati dalla crisi. O saremo in grado di compiere questa rivoluzione oppure la realtà attuale, che si è già prepotentemente presa il centro della scena, spazzerà via anche le residue speranze di ripresa economica e di rinascita sociale, aprendo la strada a forme di governo che nulla hanno a che vedere con la democrazia e con i nostri princìpi costituzionali.


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